Africa nera
Lingue & Culture
Scritto da Silvia Licata   

Sulla scia dei Mondiali di Calcio 2010, anche se, credetemi, la scelta dell’argomento è avvenuta per altre motivazioni, vi condurrò in un viaggio per il continente africano, che spero si rivelerà lontano dalla consuetudine.
Partirò da due considerazioni. La prima è che l’Africa, pur paradossalmente essendo coscienti che non sia affatto così, viene concepita come un tutt’uno, un unico e grande blocco geo-culturale, indistinto internamente. E fateci attenzione, noi parliamo sempre di Africa e africani, mai o raramente di congolesi, gabonesi o sudafricani, quasi come se fosse impossibile potere distinguere all’interno del continente delle nazionalità o delle culture differenti.
La seconda considerazione è che quando noi pensiamo all’Africa, oltre a immaginarla nella sua globalità, come quando la si osserva sul mappamondo o su una cartina geografica, la maggior parte delle volte ci riferiamo in realtà solo a una sua parte, ovvero a quella zona, peraltro comunque sempre immensa, a sud dei Paesi africani bagnati dal Mediterraneo. La ragione di questa strana aberrazione trova origine nel fatto che con il termine “Africa” in realtà spesso si intende l’Africa Nera, pur avendo in mente il continente per intero. Quindi è possibile dire che non esiste una reale corrispondenza fra ciò che ci dice la geografia e il nostro immaginario collettivo. Lo scarto di questo rapporto è dato dai Paesi africani settentrionali, che vanno dal Maghreb al Canale di Suez e che comprendono, quindi, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto. Si tratta di Nazioni appartenenti in effetti al mondo arabo e, di conseguenza, di tradizione orientale. Questa precisazione è necessaria perché, in base a quanto fra poco affronteremo, non includeremo nella nostra analisi i Paesi africani di tradizione araba, proprio per le ragioni spiegate.
Il continente africano ha vissuto un “prima”, un “durante” e un “dopo”. Lo spartiacque fra questi tre momenti storici è rappresentato dalla colonizzazione. Sul “prima”, si hanno scarse notizie, e, comunque, le poche di cui siamo in possesso riguardano un periodo addirittura antecedente le scoperte geografiche – siamo ancora in epoca fenicia e romana – e un territorio, quello settentrionale, che, come già spiegato, in quanto arabizzato, non rientra nella nostra analisi. Sul fare del XV sec. iniziano le scoperte geografiche, ma ciò non è ancora portatrice di violenti cambiamenti all’interno del continente. Il “durante” vero e proprio inizia nel corso del XIX sec. con l’arrivo dei colonizzatori europei. Le nazioni europee inizialmente presenti in Africa sono Francia, Belgio, Olanda, Germania, Italia, Spagna e Portogallo, più gli Stati Uniti d’America aventi acquisito il protettorato della Liberia. Con l’andare del tempo e degli sconvolgimenti politici dovuti principalmente alla seconda guerra mondiale, alcune di queste nazioni perdono i loro possedimenti sul continente, ma i giochi sono ormai fatti. L’Africa viene man mano spartita fra i vari Paesi colonizzatori, dando origine grosso modo agli stati africani che ancora oggi esistono. E adesso arriviamo al “dopo”. Prima conseguenza della colonizzazione. Prendete una cartina geo-politica dell’Africa: cosa notate? I confini sono decisamente troppo netti, squadrati, geometrici, quasi come fossero stati disegnati. E in un certo senso è proprio ciò che è successo. I “disegnatori” sono i colonizzatori europei, i quali si erano spartiti il continente africano seguendo una linea ai loro occhi molto precisa e calzante le loro esigenze, ma anche in realtà decisamente arbitraria, perché non rispettava e non prendeva in considerazione la presenza e la distribuzione sul territorio delle varie etnie, ottenendo come risultato la compresenza all’interno di una unica amministrazione coloniale di più popolazioni e al tempo stesso smembrandole tra possedimenti confinanti. La conseguenza è stato il verificarsi di lotte intestine e scontri etnici, che ancora ai giorni nostri, dopo anni di indipendenza, si verificano. Come non ricordare, infatti, per esempio, la guerra in Ruanda degli anni ‘90, in cui le etnie Hutu, Tutsi e Twa, si sono scontrate provocando una strage?
Seconda conseguenza della colonizzazione. La presenza dell’uomo bianco in Africa ha prodotto una maggiore consapevolezza dell’essere uomo di colore, o meglio, negro (e qui è necessaria una nuova precisazione: uomo di colore = uomo afro- originario di qualsiasi continente, indica solo l’avere una pigmentazione scura; uomo nero = uomo afro- non africano, tali sono ad esempio gli afro-americani; uomo negro = uomo nero africano). In più, come vedremo, spesso ne ha modificato anche l’essenza. Questo senso di coscienza di appartenenza è stato espresso diversamente all’interno del continente, ma non seguendo le antiche linee di distribuzione etnica, semmai, seguendo le zone di influenza coloniale. Stranamente, ma del tutto spiegabilmente, cioè, il sentimento dell’essere negro viene espresso diversamente non in quanto originari di popolazioni o tribù differenti, ma, come forma di reazione e ribellione, in quanto sottomessi a questa o quella amministrazione coloniale bianca.
Possiamo pertanto individuare quattro diverse percezioni del sentimento dell’essere negro: la négritude o negritudine dei negri francofoni, una sorta di anti-negritudine dei negri anglofoni, il sentimento di apartheid per i negri afrikaner, e infine una sorta di “nuova negritudine” per i negri lusofoni.
La négritude è un movimento culturale nato in Francia negli anni ‘30 ad opera di intellettuali non solo africani, ma anche antillani, i cui principali rappresentanti sono Léopold Sedar Senghor, poi Presidente del Senegal, e Aimé Césaire, martinicano. L’idea del movimento è quella di difendere la propria identità culturale minacciata dal colonizzatore bianco. D’altro canto, nessun esponente o autore della Negritudine si cura di fornire un’unica definizione della propria consapevolezza di negro. Anzi, spontaneamente e creativamente, ognuno di loro esprime a modo suo la propria Negritudine.
I negri anglofoni sono invece decisamente contro le idee della Negritudine. Per loro i negri francofoni esprimevano il loro sentimento di lotta in modo inutile e utopico. Ovvero, se il negro reclama la propria autorità, non ha che da prendersela. Nel momento in cui l’argomento dei suoi mezzi espressivi – teatro, poesia, romanzo, canzone – diventa il suo desiderio di emancipazione, la sua lotta, il suo senso di estraneità ed estraniamento rispetto al mondo dei bianchi, si proclama debole e incapace, ammette la sua fragilità e la sua impotenza. Wole Soyinka, autore anglofono nigeriano, Premio Nobel 1986, afferma: «La tigre non proclama la sua tigritudine, salta sulla sua preda». La spaccatura fra il mondo negro francofono e quello negro anglofono trova radici anche nella diversità di colonizzazione. Il mondo francofono è permeato di idee rivoluzionarie, giacobine, idealiste. Ciò non può non entrare in contrasto con il mondo anglosassone, pragmatico e più realista, che in Africa si traduce con la possibilità data alle popolazioni autoctone di conservare meglio la propria identità culturale, senza, ad esempio, separarle del tutto dalle loro lingue natie e favorendo un sentimento meno alienante.
I negri afrikaner, ovvero i Sudafricani, sono quelli maggiormente caratterizzati dalla distinzione manichea bianco-negro, che sfocia nella violenza. Partendo da una situazione politica già complessa in origine, perché compresenti colonizzatori bianchi olandesi e bianchi inglesi, i primi intolleranti e fautori della legge segregazionista, i secondi non complici dei negri, comunque a favore dell’apartheid, ma più tolleranti e aperti, in Sudafrica il razzismo è sempre stato all’ordine del giorno. Nel dopoguerra il governo ha istituito la segregazione razziale, in seguito a cui in negri non potevano servirsi delle stesse strutture che utilizzavano i bianchi o erano obbligati a vivere in quartieri separati creati appositamente solo per loro, ovvero i bantustan, anche se il termine apartheid viene utilizzato per la prima volta già nel 1917 dal Primo Ministro sudafricano Jan Smits. Ciò che ne deriva è la difficoltà per il negro sudafricano di potere esprimere liberamente il proprio “compasso della sofferenza”, come diceva Aimé Cesaire, e al tempo stesso di lottare non solo per la sua emancipazione, ma per la sua libertà. Qualsiasi mezzo espressivo non si è mai conseguentemente potuto sviluppare serenamente e con continuatività. Fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, il movimento della Black Consciousness ha favorito tuttavia la rinascita di un sentimento di identità sudafricana.
L’autore più eminente della letteratura afrikaner è John Coetzee, di cultura mista anglo-olandese, nettamente anti-apartheid. Il rappresentante del movimento anti-apartheid è Nelson Mandela. Dopo più di trent’anni di carcere e un’intera vita di lotta, è Presidente del Sudafrica dal 1990 al 1994 e ottiene il Premio Nobel per la Pace nel 1993. Attualmente è ancora attivo nel panorama dei diritti umani.
In ambito lusofono, è possibile segnalare una similitudine con la Negritudine francofona, ovvero i sentimenti e le modalità espressive sono grosso modo le stesse, ma ciò che differisce è la conquista dell’indipendenza, arrivata molti anni dopo rispetto a tutti gli altri Paesi africani, e ciò ha come conseguenza, da una parte una più lunga guerra di lotta e liberazione, dall’altra una minore produzione letteraria. Inoltre, dal momento che il governo portoghese si dimostra a favore dell’integrazione e della mescolanza fra bianchi e negri, in realtà è possibile trovare fra autori ed esponenti del sentimento di Negritudine, riuniti sotto il movimento Renascimento Negro, non solo negri, ma anche bianchi e meticci. In ambito lusofono, molto importante è il contributo offerto dalle donne, in particolare dall’autrice mozambicana Paulina Chiziane.