Marcin Król: l’insostenibile pesantezza dell’essere Euro-pa
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Tra i vari editoriali che si possono leggere sulla newsletter del Centro Studi “Sereno Regis” di Torino, storico ente onlus per la diffusione della storia e della pratica dei movimenti nonviolenti, ecologisti, e pacifisti, quello tratto dal periodico polacco “DZIENNIK GAZETA PRAWNA” (forse si può tradurre con “La notizia quotidia-na”) pubblicato a Varsavia l’estate dell’anno scorso, il 26 luglio 2013 – dunque, tra l’altro, nella consueta stagione degli sbarchi di immigrati sulle coste del meridione italiano, con relative vittime che si stanno ripetendo purtroppo anche in queste settimane – si intitolava Il tramonto del multiculturalismo, di Marcin Król, filosofo e storico delle idee polacco, nato a Varsavia il 19 maggio 1944, autore di diverse pubblicazioni tra cui la più recente, dal titolo non troppo ottimista e vagamente spengle-riano: L’Europa di fronte alla fine (Europa w obliczu konca, 2012). Vale la pena di leggere l’articolo di Król, che però ha luci e ombre (almeno per il lettore, si spera non per l’autore...) forse perché, appunto, al tramonto la luce comincia a diminuire: «La tolleranza verso le culture diverse era un pilastro della civiltà europea, ma sta rapidamente perdendo consensi. [...] Dagli anni settanta in poi il multiculturalismo è stato non solo una realtà in paesi come gli Stati Uniti, ma anche una regola. Era dunque necessario sostenerlo tramite la promozione della diversità, che non mancava di un suo fascino. Ma era anche necessario rispettarlo, in quanto era espressione delle “identità” diverse di diversi gruppi sociali, in particolare nazionali e tribali, ma anche sessuali e generazionali. A un certo punto il numero delle pubblicazioni e delle conferenze sul Multikulti ha superato tutti i limiti del ragionevole, [trasformandosi in una] nuova moda.» C’è della ragione in queste considerazioni, e c’è da chiedersi se ciò non si debba anche, almeno in parte, al fenomeno che lo stesso Król ha descritto poco prima, cioè il voler conferire identità e valore indiscutibili a qualsiasi tipo di diversità, e allo stesso tempo collocarla, questa diversità, in un grande calderone in cui ogni diver-sità vale quanto l’altra e, alla fine, tutto va bene a tutti. Se qualcosa diventa di moda, è perché è facilmente distribuibile, e diventando moda si diffonde ulteriormente; ma se una cosa è adottata da tutti e da chiunque senza troppo pensarci, questo si deve anche al fatto che essa, paradossalmente, è percepita – magari anche e soprattutto in-consciamente – non come una cosa d’eccellenza, ma come una cosa di non eccessiva importanza, di non troppo valore: non tutti potrebbero permettersi una cosa che ha un valore alto e quindi un alto prezzo, viceversa chiunque si può permettere una cosa che ha scarso valore e quindi un basso prezzo. Ne emerge che l’elemento “esotico” acquisito da una società avrebbe un valore più che mai relativo perché, alla fine, qualsiasi cosa risulta investita di un valore eccessivamente maggiore del dovuto soltanto perché piace a qualcuno, senza badare a, o addirittura ignorando, l’origine, il significato e le eventuali conseguenze dell’acquisizione dell’elemento esotico. Continua Król: «Premesso ciò, ci si rende conto adesso che un multiculturalismo misurato era di gran lunga migliore dei due fenomeni ai quali ci troviamo di fronte di questi tempi. La prima tendenza è quella di sostituire il multiculturalismo con un’accettazione incondizionata di tutti i fenomeni culturali, a prescindere da quali siano la loro origine, il loro contesto poli-tico, religioso, sociale o spirituale. In altri termini [...] sono tutti altrettanto validi. “Tutti altrettanto validi” significa quindi che siamo privi di una scala di valori relativi alla nostra cultura (europea), e quindi tutto ciò che è buono è buono, anche se ne ignoriamo il perché. La seconda minaccia al multiculturalismo è il monoculturalismo, strettamente associato alle idee nazionaliste, sprovvedute dal punto di vista intellettuale ma straordinariamente in espansione. Per taluni aspetti il multiculturalismo è emerso giustamente in contrapposi-zione al monoculturalismo. Ma il nazionalismo non è l’unico nemico del multiculturalismo. L’ostilità nei confronti delle altre culture e civiltà è sempre più evidente nelle inchieste condotte all’interno delle comunità di immigrati dei diversi paesi europei. Come pure nelle parole, talvolta anche ufficiali, dei leader di alcuni paesi musulmani. La grande qualità dell’idea di multiculturalismo, in buona parte sottovalutata durante i suoi tempi gloriosi, era la consapevolezza dell’esistenza di una moltitudine di culture e delle loro differenze. Alcuni spingono l’analisi un po’ oltre, sostenendo che queste culture diversificate non erano soltanto diverse, ma anche del tutto equivalenti, o anche altrettanto preziose. Senza voler difendere qualsiasi principio eurocentrista, riconosciamo tuttavia che l’esistenza di numerose culture e l’accettazione stessa di questa esistenza non preclude il fatto che la nostra cultura ci sia ovviamente più vicina. O quanto meno dovrebbe esserlo. Ciascuna cultura rappresenta o promette valori specifici, ai quali non possiamo aderire semplicemen-te in quanto occidentali. Per esempio la legislazione riguardante la donna in alcuni paesi musulmani o alcune pratiche culinarie consistenti nel mangiare, in alcuni paesi dell’Estremo oriente, i nostri cari animali da compagnia. La cosa interessante è che il post-multiculturalismo si sviluppa sempre più nelle società che devono affrontare problematiche molto difficili, e talvolta ancora irrisolte, riconducibili alla diversità culturale. Sto parlando, prima di tutto, degli immigrati che, benché lavorino e siano indispensabili, non hanno alcuna intenzione di prendere parte alla cultura o alla politica dei paesi nei quali risiedono. Questo crea un problema reale, non soltanto perché si devono loro le medesime prestazioni che si assicurano al resto della società (educazione e sanità), ma anche perché nessuno dispone degli strumenti necessari alla loro integrazione nella comunità, così che abbiano gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini.» Come sa Król che gli immigrati «benché lavorino e siano indispensabili, non hanno alcuna intenzione di prendere parte alla cultura o alla politica dei paesi nei quali risiedono»? Si basa su alcuni sondaggi o statistiche che evidenziano queste risposte o su dichiarazioni esplicite? E, soprattutto, che cosa intende con «prendere parte alla cultura» del Paese che li ospita? Se un immigrato volesse inserirsi in un livello più alto di attività del Paese ospitante rispetto a quello della mera attività lavorativa per garantirsi la sussistenza, dovrebbe possedere delle conoscenze di base proprio della cultura del tale Paese; ma quando avrebbe avuto il tempo e la possibilità di acquisir-le? La maggior parte degli immigrati sicuramente non è ricca; anche se tra loro ci sono persone che nel Paese d’origine svolgevano un lavoro qualificato – giornalisti, documentaristi, persino magistrati – si sa quali possibilità abbiano quando tentano di avanzare nella società ospitante. Quello che Król sembra voler dire è che non basta che un immigrato nel Paese in cui risiede rispetti la legge e lavori; egli dovrebbe anche lasciarsi assimilare dalla sua cultura e, alla fine, rinunciare alla propria. Ma poi, da quale punto di vista: religioso, alimentare, linguistico, dell’abbigliamento? Sembra quasi che Marcin Król dipinga il comportamento degli immigrati come rozzamente ingrato, “menefreghista” verso la società che li ospita e li “sfama”; in più su quest’ultima, essi graverebbero ugualmente dal punto di vista degli “oneri” basilari dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria. Dulcis in fundo, quando scrive che nelle società ospitanti «nessuno dispone degli strumenti necessari alla loro integrazione nella comunità, così che essi abbiano gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini», in-tende dire che molti Paesi europei non possono permettersi queste misure dal mero punto di vista economico? Oppure che a livello politico non dispongono di idee, progetti, iniziative in questa direzione; in buona sostanza che non sanno nemmeno loro che pesci pigliare davanti al fenomeno dell’immigrazione? Il giudizio un po’ pessimista di Król sulla scarsa volontà di integrazione degli immigrati ritorna comunque dopo qualche riga: «[...] Dopo tutto alcuni immigrati, in particolare i musulmani, arrivano da Paesi che incoraggiano apertamente una posizione anti-occidentale. In che modo potrebbero dunque trasformarsi improvvisamente in uomini e donne occidentali? Perché all’improvviso dovrebbero diventare occidentali?» E qui ritorna anche la domanda: in che cosa concreta-mente consiste la «trasformazione» in cittadini occidentali? Król non specifica mai che cosa un immigrato dovrebbe abbandonare della propria cultura di origine e che cosa dovrebbe acquisire da quella europea/occidentale per poter essere definito un “autentico” occidentale o un “autentico” occidentalizzato; dunque non sembra chiaro nemmeno quali siano i caratteri specifici della cultura occidentale...! Continua Król: «Possiamo permetterci la presenza di milioni di loro? Nessuno in Europa osa rispondere chiaramente a questi interrogativi, e i pochi che lo fanno sono immedia-tamente – e giustamente – respinti come radicali, o perfino accusati di razzismo o di fascismo.» Qui Król descrive l’impasse delle autorità politiche, che riconoscono l’impossibilità di iniziative disumane, tipo: “Non possiamo permetterceli, allora respingiamoli e rimandiamoli a casa loro”, ma allo stesso tempo non hanno alternative migliori da proporre e quindi sembrano fare solo una muta figuraccia. E infatti all’inizio dell’articolo Król diceva che – viceversa – la tolleranza verso i rappresentanti delle culture diverse sta perdendo consenso dopo una “indigestione” di multiculturalismo. Non poteva poi mancare lo «scontro di civiltà» di Samuel Huntington, tema all’origine dell’omonimo libro (probabilmente «più esorcizzato che letto» ): «Se, come so-stiene Samuel Huntington con il suo “scontro di civiltà”, le differenze culturali sono un dato di fatto e possono trasformarsi in ostilità incondizionata, qual è il senso del multicultu-ralismo e perfino della tolleranza? Dovremmo forse considerare i nostri potenziali nemici come concittadini, se non come fratelli? Non sarebbe meglio far ritorno alle nostre radici, ai nostri miti, ai nostri simboli, alle nostre tradizioni nemmeno più europee, ma nazionali? [...] Ci si rende conto che non ci si può appigliare a nulla. Anche se si vanno affermando le opere culturali di territori europei fino a poco tempo fa poco conosciuti, per esempio i thriller svedesi, questo ritorno alla tradizione serve soltanto a esplorare la collaborazione degli svedesi con la Germania nazista. La verità è che le parole piene di orgoglio sulle radici europee sono in genere prive di significato.» Qui, al di là dello specifico riferimento alla Svezia, ciò che Król sembra voler dire è che la storia d’Europa ha anche aspetti negativi e quindi non si può farne un mito positivo nei confronti di altre tradizioni culturali; ma non c’è niente di straordinario in questa constatazione, a meno che non si voglia credere che esistano tradizioni culturali e nazionali tutte positive e altre tutte negative...! Continua Król: «[...] Il post-multiculturalismo nasce dal fatto che in Europa non siamo a nostro agio con noi stessi e che non sappiamo come affrontare questo disagio. Alcuni metodi utilizzati un tempo appaiono poco applicabili: né la divisione del mondo tra “noi” e “gli altri, i barbari”, né il fascino dell’Illuminismo per “i rossi e i neri”, come pure le meraviglie della natura e il fardello imperialista dell’ “uomo bianco”. Il multiculturalismo è stato l’ultimo tentativo ragionevole, per quanto talvolta esagerato, di risolvere questo disagio. Oggi la situazione è molto più grave: o decidiamo che gli altri non esistono, oppure è necessario sbarrare loro il passo, fisicamente e spiritualmente. E ciò non può che condurci al disastro.» Decidiamo che gli altri non esistono? Ciò è possibile soltanto fingendo, chiudendo gli occhi: mi impedisco di vedere che la diversità culturale è anche vicino a me; ma così sono io che mi escludo dalla società, e quando anche tutti gli altri fanno finta di non vedere che di fronte hanno qualcun altro, l’esito è sempre lo scontro. Allo-ra – caso 2 – sbarriamo il passo? Si bloccano gli arrivi degli immigrati, li si respinge, magari anche manu militari; ma è veramente possibile in un mondo che, malgrado tutto, si basa sul riconoscimento universale dei diritti umani? In conclusione, il panorama che ne risulta è appunto quello di un sistema sociale e politico europeo immobile, che non sa come affrontare il problema. E la confu-sione culturale e politica dell’Europa che Marcin Król ha voluto descrivere sembra talvolta rispecchiarsi, forse suo malgrado, nei punti poco chiari del suo stesso edito-riale... (Per l’articolo completo di Marcin Król: Newsletter del Centro Studi Sereno Regis, N. 2013/28, lunedì 29 luglio 2013: http://www.reteccp.org/primepage/2013/democrazia13/razzismo.html).