Preti coraggiosi uccisi dalle organizzazioni mafiose

di Angela Vaccina

Il Vesuvio sovrasta la città, come una montagna addormentata si erge sul Golfo di Napoli. Una città piena di profumi e di suoni, caotica, impertinente, fuori dalle regole. Quartieri di lusso e vicoli sporchi, sovrappopolati, i “bassi”, umide case, lenzuola stese da un palazzo all’altro, ove si odono tante voci di bambini. Sembra di tornare indietro nel tempo, in un altro secolo, quando le malattie falciavano le popolazione, ma soprattutto l’analfabetismo favoriva lo sfruttamento lavorativo e la nascita di alcune società segrete: camorra, n’drangheta, mafia. In virtù delle notizie storiche accertate, si può datare la nascita della camorra partenopea, intesa come organizzazione criminale segreta, intorno al XIX secolo; vi sono innumerevoli versioni circa l’origine del nome camorra: da “La Gamurra”, giacchetta tipica dell’Italia medievale e rinascimentale; oppure dalla lingua araba “Kumar”, gioco d’azzardo proibito dal corano; infine dalla parola dialettale la “morra” (con la morra) in riferimento all’omonimo gioco di strada. 

La camorra è oggi organizzata in centinaia di famiglie o clan, estesa in quasi tutti i comuni della provincia di Napoli e in molti comuni della regione, in particolare della provincia di Caserta. Nacque in Sardegna nel XIII secolo, nei quartieri portuali della città di Cagliari: uomini assoldati come mercenari dai pisani, che comandavano il territorio, per evitare sommosse da parte degli isolani, controllavano i borghi della città. Tale organizzazione aveva bisogno  di entrate per sopravvivere, per questo nacquero gabelle, gioco d’azzardo, tangenti e protettorato, tutto questo con l’appoggio dei pisani prima e degli aragonesi  che subentrarono, in seguito. I mercenari sardi lasciarono Cagliari e raggiunsero la Campania stabilendovisi nel XVI secolo, durante il governo spagnolo. La camorra attecchì velocemente in città, tra la popolazione locale, nei quartieri più popolosi, organizzandosi in famiglie o clan capitanati da criminali provenienti dai più bassi strati della società napoletana che, oltre a fungere da mercenari capitanati dagli alti ceti sociali, per esercitare il controllo delle bische si rendevano allo stesso tempo autori di soprusi, abusando del potere conferito loro. Queste bande commettevano illeciti ai danni delle povere persone del popolo, come raccontano documenti dell’epoca. La camorra godeva dei favori della casa reale, del prefetto di polizia e del commissario di pubblica sicurezza del rione Porto. 

L’evolversi di situazioni sociali e politiche dell’Italia non ha cambiato, nel tempo, la considerazione e l’appoggio politico a favore della camorra. Nonostante le violenze, i crimini perpetrati contro la popolazione, le riscossioni del pizzo e le estorsioni ai danni dei commercianti, i camorristi godono della benevolenza del popolo. Nei primi anni del regno di Ferdinando II, divenne famoso Michele Aitollo. Costui il giovedì presiedeva una sorte di corte di giustizia in un basso napoletano, per dirimere litigi fra persone del popolo; si pronunciava anche su persone inviategli da Luigi Salvatores, commissario di pubblica sicurezza. La camorra sopperiva alla carenza e al disinteresse. Attualmente la situazione non è cambiata e molti quartieri di Napoli sono alla ribalta al telegiornale e sui giornali, così come alcune cittadine famose non per le bellezze paesaggistiche, ma perché feudo della camorra. è lungo l’elenco di amministrazioni comunali sciolte per infiltrazioni camorristiche: Acerra, Casal di Principe, Ottaviano, Ercolano, Frattamaggiore, Pompei, Pozzuoli, Portici, Sarno... Il giro d’affari complessivo delle cosiddette, “famiglie” si aggira intorno ai 12 miliardi e mezzo l’anno. Traffico di droga, imprese e appalti pubblici, traffico di armi, prostituzione, estorsione e usura, produzione di falsi (abbigliamento, cd, dvd), prodotti con canali e sedi in tutti i continenti. 

Altro importante settore è quello dello smaltimento illegale di rifiuti, sia industriali che urbani, attività estremamente lucrosa che sta conducendo vaste zone di campagna nelle provincie di Napoli e Caserta verso un progressivo degrado ambientale, “la terra dei fuochi”. Le bufale pascolano su territori intrisi di scorie e rifiuti speciali, la verdura cresce vicino all’acqua inquinata e putrida, la popolazione campana è affetta da tumori e malattie legate alla situazione territoriale. La camorra crea nei quartieri poveri e popolosi, dove dilaga, l’ignoranza, l’abbandono della scuola, la disoccupazione, esempio Scampia. 

In tutto questo guazzabuglio spiccano delle figure che non si rassegnano, ma cercano di dare voce ai disagi del popolo, dei giovani;  sono giornalisti, magistrati, poliziotti e sacerdoti. 

Giuseppe Diana chiamato anche Peppe Diana o Peppino, nacque a Casal di Principe nei pressi di Aversa, da una famiglia di proprietari terrieri. Nel 1968 entrò in seminario ad Aversa ove frequentò la scuola media e il liceo classico. Successivamente continuò gli studi teologici nel seminario di Posillipo, sede della pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale. Si laureò in filosofia presso l’università Federico II di Napoli. Nel 1978 entrò nell’associazione guide e scout cattolici italiani, dove fece il caporeparto. Nel marzo del 1982 venne ordinato sacerdote, divenendo così l’assistente ecclesiastico del gruppo scout di Aversa, in qualità di segretario del vescovo della città. Nel 1989 divenne parroco della parrocchia di San Nicola di Bari, in Casal di Principe suo paese natio. Insegnò materie letterarie presso il liceo legalmente riconosciuto, del seminario Francesco Caracciolo, religione cattolica presso e l’Istituto professione Alberghiero di Aversa. Don Peppino Diana cercava di aiutare la gente negli anni del dominio assoluto della camorra casalese, legata principalmente al boss Francesco Schiavone detto Sandokan. Gli uomini del clan controllano, ma sono anche infiltrati negli enti locali e gestiscono fette rilevanti di economia legale, tanto da diventare “camorra imprenditrice”. Don Diana si schierò apertamente contro la camorra, con le parole dette dal pulpito contro il rachet e lo sfruttamento degli extracomunitari, a favore di giovani, della giustizia e della solidarietà umana. Scrisse e mandò i suoi messaggi alle chiese di Casal di Principe e della zona aversana, in particolare nel 1991 scrisse una lettera degna di nota dal titolo “Per amore del mio popolo”, documento diffuso a Natale. Queste le sue parole in essa contenute: “è ormai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale privo però di burocrazia e di intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc. non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi, un preoccupante senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di scoprire quegli spazi per una ministerialità di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento; certamente di realtà di testimonianze e di esempi per essere credibili”. La camorra non restò indifferente e pensò di spegnere questa voce che colpiva il popolo e che poteva contribuire ad un cambiamento morale. Dopo aver ricevuto varie minacce don Diana venne assassinato nella sacrestia della Chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, mentre di accingeva a celebrare la santa messa. Cinque proiettili andarono tutti a segno e don Diana mori all’istante all’età di 36 anni. Sin dall’inizio del processo si tentò di depistare le indagini e di infangare la figura di don Peppe, accusandolo di essere frequentatore di prostitute, pedofilo e custode delle armi destinate ad uccidere il procuratore Cordoba. In particolare il Corriere di Caserta pubblicò in prima pagina il titolo “Don Diana era un camorrista” e dopo pochi giorni “Don Diana a letto con due donne” descrivendolo quindi non come vittima della camorra, bensì come appartenente ai clan. 

Nunzio de Falco venne condannato in primo grado all’ergastolo il 30 gennaio 2003 come mandante dell’omicidio, e venne inflitta una condanna di 14 anni all’autore materiale dell’omicidio, Giuseppe Quadrano, divenuto collaboratore di giustizia. Il 4 marzo 2004 la Corte di cassazione condannò all’ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti come coautori dell’omicidio. Il 25 aprile 2006 a Casal di Principe nacque ufficialmente il comitato “Don Peppe Diana” con lo scopo di non dimenticare il martirio di un sacerdote morto per amore del suo popolo. Questa associazione porta avanti i progetti di don Diana, continuando a costruire comunità alternative alla camorra. Nel 2010 due Istituti Superiori, uno di Morcone (BN) l’altro di Portici (NA) sono stati intestati a don Giuseppe Diana, inoltre il 18 e 19 marzo 2014, ad esattamente vent’anni dalla scomparsa di don Diana, Rai uno ha trasmesso fiction televisiva in due puntate “Per amore del mio popolo” con l’attore napoletano Alessandro Preziosi nella parte di don Peppe Diana. Al sacerdote è stato dedicato un documentario dal titolo “Non tacerò la storia di don Peppe Diana”. Lo Stato lo ha premiato conferendogli una medaglia d’oro al valor civile, riconoscendolo come “Nobile esempio dei più alti ideali di giustizia e solidarietà umana”.