Crescere lontani da casa IIa parte

di PierVittorio Formichetti

Oggi in Italia ci sono molte comunità di immigrati extraeuropei, ma non c’è ancora una conoscenza sufficiente delle differenze etnico-culturali, anche nell’àmbito della genitorialità e delle pratiche di vita familiare, e la reazione, da parte anche delle autorità, spesso è troppo allarmata.

A sua volta, l’impatto con il contesto sociale ospitante si ripercuote sulla dimensione psicologica dei migranti. Simona Taliani ha ricordato un esempio tratto da Les énfants illégitimes, uno studio ancora inedito di Abdelmalek Sayad, sociologo algerino (autore de La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle delusioni dell’immigrato). Il titolo (I bambini illegittimi) è tratto da una frase detta da un amico di Sayad che ha una figlia, Zawa, nata nel 1954 (aveva 21 anni nel 1975), che ha “subìto” l’immigrazione: ha due sorelle maggiori nate in Algeria e due fratelli minori nati in Francia, e lei si definisce «spaccata», «caduta nel mezzo». L’emigrazione si insinua nella vita delle generazioni; Zawa racconta che poteva «tirare per il naso» suo padre perché lui non conosceva quasi niente della società di arrivo (quella francese), ma questo rapporto si fece più difficile, perché quando lo invitava a parlare con lei dell’esperienza dell’emigrazione, sui motivi della scelta di andarsene, il padre si chiudeva nel silenzio: l’evento più incisivo della sua vita era quello di cui lui era meno capace di parlare. Zawa dice che si sente «un prodotto della Francia», che i figli degli immigrati sono «nemici usciti dal ventre delle loro madri». 

La relazione familiare si blocca intorno a questo nodo dell’emigrazione; alcuni adolescenti dicono proprio, negli incontri con le psicologhe, che non sanno assolutamente perché i genitori hanno deciso di emigrare. L’interruzione del dialogo è più grave nel caso dei figli delle nigeriane, perché molte di esse sono arrivate in Europa avviate alla prostituzione. Dell’esperienza dell’emigrazione, una di queste donne disse soltanto: «È stato difficile»; il figlio disse che l’unica cosa che la madre gli aveva detto sui suoi primi anni da immigrata in Italia era che aveva chiesto l’elemosina sui tram; era l’unica cosa che si era sentita di poter dire. Da parte sua, il genitore come può raccontare a un bambino che affrontare tutto questo era sempre meglio che restare al Paese di origine, dato che il figlio era troppo piccolo per saperne qualcosa? Il silenzio forzato fa sì che poi, quando il ragazzino è cresciuto e vuole sapere, il genitore non ha nessuna voglia di rievocare e di parlare. L’esperienza della migrazione introduce, in alcuni casi, un blocco, un silenzio tra genitori e figli.1

La società di accoglienza spesso fa danno, seppure in buona fede. C’è stato il caso di una bambina del Senegal che chiede come mai la nonna della sua compagna l’ha chiamata «Cioccolatina»; naturalmente non c’era nessuna intenzione veramente razzista, ma la bambina ha recepito di essere in qualche modo diversa dalle altre. Una bambina marocchina soffriva perché il suo nome, Mejda, veniva storpiato dai compagni in «Merda», e non si sentiva meglio quando la famiglia le diceva che Mejda è un bel nome, che anche la nonna si chiama così, che non deve prendersela... Spesso alcuni immigrati cercano di dare apposta ai figli dei nomi che non si possano storpiare in italiano. 

Quello che bisogna capire è che queste cose a noi sembrano sciocche, ma segnano sia i genitori sia i figli, perché dal loro punto di vista non sarebbero mai accadute se non fossero emigrati.

Infine, come operatrice nell’associazione torinese «Frantz Fanon», che svolge supporto psicologico per gli immigrati, i rifugiati e le vittime della tortura2, Simona Taliani ha portato un esempio un po’ più famoso dei precedenti (anche se per me è stata la prima volta che l’ho sentito!): quello, appunto, di Frantz Fanon. Nato nella Martinica (che è ancora oggi «dipartimento d’Oltremare» francese), a 26 anni scrisse una ricerca per laurearsi in medicina a Parigi, ma non venne accettata dall’Università; la pubblicò riveduta, con il titolo Pelle nera, maschera bianca, ed è una riflessione molto autobiografica sul tema della diversità etnico-culturale. Di padre nero, discendente di schiavi “importati”, e madre francese, Frantz assomigliava più al padre; frequentò comunque la scuola e il liceo e ambienti borghesi come i francesi benestanti “bianchi”. Racconta di quando da piccolo vedeva al cinema i film americani, per esempio quelli su Tarzan, e pur essendo negro (Fanon usa questo termine apposta), si identificava nell’eroe bianco come tutti i suoi coetanei; nemmeno lui si sarebbe mai sentito di identificarsi nel negro del villaggio. Racconta con umorismo che i martinicani, che parlano francese senza la R tipica del francese, la pronunciavano apposta più marcata, nei luoghi pubblici, per esempio al ristorante chiamando «Garçon!», per non essere subito riconosciuti diversi dai “veri” francesi. Finché un giorno, a 24 anni, mentre si trova alla fermata del pullman, una bambina lo guarda e dice «Mamma, c’è un negro, ho paura!!». In quel momento Fanon sentì «frantumarsi» la sua identità di “francese”, “bianco culturalmente”, si sentì improvvisamente relegato nel ruolo del diverso che fa paura; da qui partì tutta la sua riflessione sul rapporto del “diverso” con la società circostante che attacca su di lui le etichette del proprio immaginario, che è inizialmente sconosciuto a lui stesso, ma lo segna (dopo avere combattuto nella II guerra mondiale, Fanon fu tra i fondatori dei Black Panthers negli USA, divenne un militante). 

L’importante è che queste occasioni, anche se piovono addosso «come un’accetta» – come diceva Fanon – siano un punto di partenza e non un blocco nell’immagine negativa della propria identità.

1. L’argomento è un tema-chiave degli studi dell’antropologa Vanessa Maher (vedi il mio articolo Generazioni (immigrate) a confronto - 1a parte, su “Conexión” N° 58/aprile 2014.

2. http://associazionefanon.it