Non se ne può più... ma di che cosa? Stampa
Articoli - Società

 di Daniela Brina

 

Lo dico ufficialmente. Sono stanca di sentire alcune affermazioni e certi ragionamenti, sempre uguali: al pronto soccorso di un ospedale, al supermercato, sul pullman, sui post di Facebook...

 

“Certo che non se ne può più... tutti questi migranti che arrivano, non ci sono soldi neanche per noi...” “Io non sono razzista, però...” “Con la crisi che c’è diamo i soldi agli stranieri, e a noi niente!” “A loro danno la casa e noi dobbiamo pagare le tasse per tutto...”, e così via.

 

Ma io mi chiedo, qualcuno sa di cosa sta parlando? Puoi tu che stai leggendo, sinceramente, anche solo pensare che sia meglio essere al posto di un migrante? Si può invidiare in qualche modo la sua posizione? 

 

 

Proviamo a ragionare semplicemente, molto semplicemente: di cosa pensi di avere diritto per vivere dignitosamente? Di un tetto sotto cui ripararti, possibilmente caldo d’inverno, di mangiare almeno tre volte al giorno, di poterti lavare, di poterti curare se stai male, di poterti istruire. E di cose immateriali come gli affetti, la famiglia, gli amici, il riconoscimento delle proprie qualità, del proprio valore. E magari molto altro. Però diciamo che queste cose sono quelle fondamentali. Allora secondo te un migrante che arriva con un barcone attraverso il Mediterraneo, presumibilmente fuggendo da guerre e persecuzioni oppure, nella migliore delle ipotesi, dalla povertà andando alla ricerca di un futuro migliore, ce le ha queste cose? 

Il tetto, se il migrante non è morto durante il viaggio e se viene intercettato, è quello di un Centro di primo soccorso e accoglienza, che in un secondo tempo può diventare un CARA (Centro di accoglienza per richiedenti asilo) oppure un CIE (Centro di identificazione ed espulsione), se al migrante non viene riconosciuto il diritto alla protezione internazionale e quindi si cerca di identificarlo per rispedirlo al suo paese. Ma sono tutte soluzioni “a tempo”: si spera che la richiesta di asilo venga accolta, nel qual caso forse ci sono possibilità di essere inseriti nei progetti gestiti da cooperative, anche questi a tempo, dopodiché si aprono le porte della strada. Significa non avere un posto in cui andare a dormire, non sapere come mangiare ecc., pur avendo il diritto (anzi il dovere, perché il trattato europeo “Dublino 3” obbliga il migrante a fermarsi nel paese in cui richiede asilo, che è quello in cui entra per primo) a rimanere sul territorio nazionale. Se invece finisce nel CIE non ci sono tempi certi di permanenza: se identificati si viene rispediti a “casa” (tra virgolette perché in molti casi non c’è nessuna casa a cui tornare) oppure si rimane a tempo indeterminato (massimo....) in questi centri che sono vere e proprie carceri per persone che non hanno commesso crimini, se non entrare nel nostro paese. Succede che gli “ospiti” dei CIE si suicidino, si cuciano le labbra o incendino i materassi per protesta: vivono in situazioni limite, senza futuro, senza speranze.

Ovviamente non hanno affetti vicini, non sanno come sta la famiglia, non hanno amici e non viene riconosciuto niente di quello che erano prima di partire (titoli di studio, professionalità, capacità...).

I soldi che vengono dati ai migranti sono un mito: ci sono soldi (in buona parte stanziati dall’Europa) che vengono dati alle cooperative (dove lavorano molti italiani) che li accolgono per un tot di tempo, e ai migranti è garantita una piccola somma (2 Euro) al giorno, più, ma non sempre, un biglietto per il trasporto pubblico.

Allora, lo stai invidiando questo migrante, colpevole di tutte le tue pene?

Con questo non sto dicendo che non esista il problema degli sbarchi o dell’immigrazione in generale: ma è un tema che va ridimensionato e va trattato, non usato come capro espiatorio di tutto ciò che non va. E non va trattato sempre come un’emergenza: finché esisteranno povertà, guerre e dittature più o meno sanguinarie, esisteranno le migrazioni di massa. 

Perché non sento mai dire: “Certo che non se ne può più, questa gente con i Suv e le Maserati, e a noi tagliano la pensione”, oppure “Con la crisi che c’è perché non si tassano quelli che hanno di più, che non devono vivere ogni giorno con l’incubo di non arrivare alla fine del mese?” Ecco, sarei già più contenta: perché sempre con il più disgraziato ce la dobbiamo prendere?

Sia chiaro, non voglio istigare nulla, voglio solo far riflettere sul fatto che la vita è spesso fatta di fortuna. La fortuna di essere nati in un posto piuttosto che un altro ad esempio. Certo, chi è ricco magari ha anche avuto intraprendenza e capacità, e nessuno gliene toglie il merito. Ma molto ha fatto anche la fortuna: essere al posto giusto nel momento giusto, fare la scelta giusta nel momento giusto. Senza contare che spesso chi si arricchisce lo fa ai margini della legge o peggio ancora illegalmente, facendo perciò la sua fortuna a scapito di tutti quelli che calpesta.

Il migrante, invece, non ha scelto il Paese in cui nascere, non ha scelto di vivere in un Paese povero o in guerra. Non ha scelto di vivere in un Paese colonizzato e sfruttato dalle stesse nazioni verso le quali ora cerca un po’ di fortuna e di futuro.

La situazione in Italia sta diventando difficile per molte persone, ma non per questo dobbiamo prendercela con chi è più ai margini. Lottare per i diritti di qualcuno significa lottare per i diritti di tutti, così come quando qualcuno perde un diritto prima o poi questa perdita si rifletterà su tutta la società.

Guardiamo ai migranti come a dei fratelli, come delle persone da conoscere e che possono portare tanto di positivo alla nostra società. Non dimentichiamoci che sono stati loro ad avere il coraggio di ribellarsi a Castel Volturno e a Rosarno per chiedere dignità, cosa che noi italiani spesso non abbiamo più il coraggio di fare.