Una Mata Hari di balera
Articoli - Società
Nella prima metà del 1978, sulle prime pagine de la Stampa che riportavano la storica notizia del maxiprocesso alle Brigate Rosse, si poteva osservare nelle foto segnaleti-che, anche quella di un’anziana signora sorridente, con il viso incorniciato da un paio di grossi occhiali scuri, un po’ in contrasto con i volti giovani e seriosi dei membri delle BR. L’articolo diceva che si trattava dell’ex partigiana comunista Cesarina Carletti, detta nonna Mao per le sue accese simpatie politiche, arrestata per il possesso di vo-lantini delle Br e amica di uno dei leader storici dell’organizzazione, Alfredo Buonavita. La Carletti, vedova e proprietaria di una bancarella a Porta Palazzo a tutti nota, verrà comunque prosciolta quasi subito da ogni accusa. Eppure questa simpatica e grintosissima signora, che anche alla sua rispettabile età non ricusava di affrontare un delicato processo in nome dei suoi ideali, recava alle spalle un vissuto così intenso e tragico che crediamo sia molto importante far conoscere il più possibile. Nata a Torino nel 1912, Cesarina inizia a conoscere la sofferenza del carcere appena diciassettenne, quando le toccherà scontare sei mesi alle Nuove per aver osato inviare al Duce (che aveva conosciuto personalmente), una lettera in cui gli scrive schiettamente, secondo il suo stile, cosa pensa di lui e del suo governo. Uscita da lì e trovato lavoro, si sposa, ma perde il marito quasi subito, nella campagna d’Etiopia. Quattro anni dopo, nel 1940, tocca invece al padre, letteralmente massacrato dalle botte fasciste. Dopo l’8 settembre ’43, Cesarina decide di sposare la causa della Resistenza per combattere quella malapianta del fascismo che le ha strappato in breve tempo padre e marito, con il compito di mantenere stabili i contatti tra i gruppi partigiani torinesi e quelli della val Lanzo. A Mezzenile, in alta valle Lanzo, nel dicembre ’43 viene ferita e catturata, dopo un aspro combattimento a fuoco. Ne segue l’arresto e la deportazione nella famigerata caserma di via Asti, nel precollina torinese, sede di estenuanti interrogatori inframmezzati da crudeli torture e se-vizie, sul modello di quella di via Tasso a Roma. Anche a Cesi (il suo nome di battaglia) non è riservato un trattamento di favore: le vengono rotti quasi tutti i denti, ma lei resiste stoicamente e non rivela il nascondi-glio del suo capo Leo DeBenedetti, che le sarà grato a vita. Alla fine, viene trasferita alle Nuove (dove dall’età di diciassette anni è già stata 19 volte!) e lì conosce la partigiana, giornalista e scrittrice Clara Grifoni che affascinata dal suo aspetto così singolare e dalla sua indomabile carica vitale, la ribattezza: “una Mata Hari di balera”. Dopo altri sette mesi, nuova, terrificante, destinazione: il lager femminile di Ravensbruck, dove è tra le prime italiane “ospiti” del terribile campo. Questa volta pare davvero impossibile che Cesi, nonostante la forte fibra, possa uscire viva da un simile inferno, eppure riesce a passare indenne anche i sette duris-simi mesi di campo che la separano dalla liberazione per mano dei russi. In un’intervista dichiarerà: “Lì eravamo seicento donne guardate da dodici SS femmina, che io da sola mi sarei fatta fuori tutte quante. Dodici ore di lavoro, e poi due ore d’appello al mattino e due ore alla sera, e solo tre quattro ore di sonno e botte, botte, botte”. All’uscita da Ravensbruck, Cesi è un misero fantoccio di appena trenta chili, mentre all’arrivo ne pesava settantacinque!!! Tornata alla libertà, Cesarina sperimenta la gioia per la fine della guerra, ma anche la cocente delusione “Io credevo di aver combattuto per qualcosa e mi son trovata peggio di prima!” lascerà infatti detto. Nonostante tutto non rinuncia all’impegno politico, prima nel PCI (dove, fedele alla sua linea, rifiuta anche incarichi prestigiosi), che però la estromette in fretta tac-ciandola di estremismo, e poi entrando in contatto con i tanti gruppi della sinistra extraparlamentare tra cui Lotta Continua e Potere Operaio, con cui manifesterà in diverse occasioni importanti della Torino operaia dei ’70, e appunto le stesse Br, per cui affronta anche un processo. Nel gennaio 1988, Cesi, scordata dai più, ci lascia, circondata solo dall’affetto dei suoi tantissimi gatti, cui era legatissima, ma ben ricordata dal commosso ricordo del militante Donato Antoniello che dichiarerà: “Ho di Cesi un ricordo incancellabile e ancora oggi, quando mi viene in mente, sento il profumo che l’accompagnava: c’era la sua vita, c’era l’aria del lager, l’odore dei tanti gatti che condividevano la sua sfera affettiva, il banco al mercato e tante altre cose. I suoi occhialoni scuri su un sorriso aperto e franco e una risata che saprei ancora riconoscere”.