Marcia ungherese Stampa
Articoli - racconti

Storia di amicizia, letteratura e libertà nella Repubblica magiara, poco dopo la caduta del regime comunista

Fuoco. Tosza sfregò la capocchia rossa sulla parte ruvida della scatola e il cerino prese fuoco. L’aumento di temperatura, causato dall’attrito, fece incendiare il fosforo rosso.

Sarà stato per lo stelo di cera o per quelle scatole in cartone colorate. Erano piccole e pratiche. Tosza era come drogato da quei cerini. Ne accendeva uno ogni trenta secondi. In una giornata, ne faceva andare anche tre scatole. Sfregava il bastoncino e poi lo lasciava cadere a terra. Per pochi secondi, la fiamma illuminava le grigie vie di Budapest.  Qualche volta, teneva quella piccola, ma energica fiamma tra le sue dita, grassottelle e lentigginose, finche non si spegneva da sola, dopo aver consumato completamente lo stelo. Il fuoco non lo bruciava. Altre volte, si accendeva una sigaretta. Fumava solo Sophiane.

In quegli attimi, io respiravo i segreti della città. Era danubiana, nobile, mitteleuropea. Ma dietro a una sorta di maschera elegante, come quelle del carnevale di Venezia, era feroce e balcanica. Nei suoi vicoli, nelle taverne, era un chiasso infernale di marinai di pianura e ubriaconi d’ogni specie. Nelle kocsma, come lui chiamava le taverne, ci andavamo a bere il fröccs, vino bianco con soda. Fröccs, come pronunciato dagli ungheresi, era una parola che ben sintetizzava il rumore che fa la soda frizzante quando piomba nel vino.

Anche attorno a tavolacci in legno di quegli scantinati, Tosza non smetteva di accendere i cerini che io gli avevo portato da Torino. Per lui erano come oro. Mi chiedevo cosa ci vedesse in quelle fiamme intense e brevi. Sarà stato un trauma giovanile o qualche reminiscenza tornata a visitarlo da vite lontane? Tosza non era uno stupido. Aveva un banco di libri in centro, all’aperto. Non era distante dal parlamento, monumento simbolo della città. Per campare vendeva libri. E mentre aspettava i clienti, se li leggeva tutti.

Fu in una di quelle taverne dove andavamo a bere, autentiche bolle di fumo da tabacco, a raccontarmi delle letterature, ungherese e cecoslovacca. Rimasi colpito dalla biografia di Jozsef Attila, che finì sotto un treno a 32 anni. Era visionario e schizofrenico, ma scrisse versi bellissimi. Un po’ mi ricordava Tosza. Ma Attila era completamente un altro tipo. Scuro di capelli, baffi e portamento nobile, aveva un viso lungo e magro. Invece, Tosza era alto, gonfio di birra e sgraziato. Il suo vero nome era Gabor, ma tutti lo chiamavano Tosza. Non ho mai capito il perché.  I suoi capelli erano lunghi, rossi e crespi. Il suo viso? Un murales di lentiggini che pareva dipinto da qualche writer, di scuola  macchiaiola. Ad avvicinarli era soltanto lo spirito poetico e  la delusione nel non riuscire a comprendere la vita, il sentirsi sempre inadeguati.

Poi godevamo dell’ironia degli scrittori praghesi. Si parlava di Bohumil Hrabal e del “Buon soldato Sc’veik” di Jaroslav Hasek.  La nostra preferita era la scrittrice Jana Černá. Il solo fatto che la sua biografia e raccolta di poesie s’intitolasse “In culo oggi no”, ci faceva impazzire.

Quando parlavamo di lei, si scivolava subito a fantasticare di donne. Per un certo periodo, avevamo amato la stessa. Presto esondavamo nella pornografia, censurata in epoca comunista. In proposito Jana scriveva: “Le fiche si cuciono su misura, e al sarto gli si dice, Mi ci metta una fodera di seta, e non metta bottoni, Tanto la porterò slacciata, Si cuciono quindi così, come la biancheria da uomo”.

Il vizio d’accendere cerini, ai miei occhi, faceva di Tosza un artista incompreso… Era un po’ Josef Attila e un po’ Hrabal, che rifiutava il potere e lo combatteva con il sarcasmo. Anni dopo, lessi che Hrabal non riuscì a entrare nel salone del libro di Torino. Troppa confusione, troppo chiasso. Preferì attendere i suoi accompagnatori in auto, in padiglione del Lingotto deserto.

In quei mesi del 1992, con Tosza cercavamo soltanto la confusione. Uscivamo dalle kocsma a mala pena reggendoci in piedi. In estate, andavamo a vomitare sulle spiaggette lungo in Danubio o, se ci riuscivamo, salivamo la collina e andavamo a vedere la città da un punto panoramico di Buda.

Eravamo umili eroi grotteschi, proprio come “quello Sc’veik” di Hasek, pacifico allevatore di cani, mandato a combattere per l’impero Austro ungarico, nella prima guerra mondiale.

Dovetti rientrare improvvisamente a Torino, il giorno che aveva programmato di sconfinare in Slovacchia per andare a bere birra a costi più bassi.

Su quel treno, diretto a Vienna e in arrivo da Bucarest, dialogai a lungo con un militare in pensione romeno, mentre mi mostrava le sue medaglie. Nel mio stesso scompartimento, un’anziana transilvana teneva a bada le sue galline, stufe di starsene chiuse in una scatola di cartone.

Poi aprii il regalo che Tosza mi aveva lasciato. Era un libro, impacchettato con cura. Era una traduzione in inglese di “In culo oggi no”, di Jana Černá.

Mi immersi nella lettura.

Il treno mordeva chilometri di pianure verdi al ritmo di una marcia ungherese accelerata. Pareva suonata da un principiante, precipitoso e inesperto. Ma, soprattutto, era priva degli acuti striduli dei violini di Ector Berlioz, che tanto ben sintetizzano il dolore per la dannazione nel Faust.