Madagascarp
Italia multietnica
Scritto da Redazione   

 Omer, sette anni, appartiene a una delle 18 tribù che popolano il Madascar. è quella dei Sihanaka, che significa “quelli che errano nelle paludi”. La sua gente vive di pesca e di coltivazione del riso. Il piccolo è stato adottato e vive oggi nella tranquilla provincia del Nord Italia. La sua storia assomiglia a tante altre legate all’universo delle adozioni internazionali.

Ma Omer ha una caratteristica. Omer ha paura delle scarpe. A casa sua non le portava e anche qui non vorrebbe farlo, anche se il clima e l’ambiente lo costringono. La sua avversione, più che a un fastidio o al rifiuto di un’abitudine, assomiglia a una paura, o meglio a una superstizione. Per lui le scarpe sono forse simbolo d’inciviltà o sono, ancor peggio, un fardello che piomba i sogni.

La sua storia, come molte altre, mi è arrivata come rottame celeste via web. Nella sua semplicità la trovo straordinaria. Omer ha risvegliato in me, vecchie letture e discussioni affrontate, in prevalenza con marocchini, che gli anni avevano scaraventato nella cantina dei ricordi.

 

Ad esempio, mi ricordo che durante il Servizio civile, i ragazzi magrebini mi davano dello zozzone a causa delle scarpe. “Ci accusate di un’igiene approssimativa – mi bacchettava Rafik – Ma voi siete peggio. Entrate in chiesa, nella casa di Dio, con le scarpe ai piedi… Magari dopo aver pestato di tutto, per la strada”.

Per la scrittrice Ornela Vorospi, le scarpe, almeno un certo tipo, fanno paura perché sono insensibili. Nei suoi ricordi, vincono le vesciche ai piedi piene di siero. Sono quelle provocate dalle scarpe di bassa qualità diffuse in Albania negli anni della sua infanzia.

Il giornalista polacco Ryzard Kapuscinski dice, invece, che in certe nazioni dell’Africa centrale, chi possiede un paio di ciabatte e una camicia è ricco. Chi ha una pentola è imprenditore.

Per Paola Rossi e Francesco Abiuso occorrono “Sette paia di scarpe” (che è anche il titolo del loro libro) per condurre gli assistenti sociali a esplorare ogni miseria fin dall’inizio della storia repubblicana del nostro Paese.

Potrei andare avanti così all’infinito e perdermi persino in un vecchio racconto, che scrissi a Istanbul, davanti a migliaia di calzature parcheggiate fuori dalla Moschea blu. Immaginavo dialogassero tra loro come tassisti in attesa di clienti.

Ma Omer ha ragione, le scarpe forse limitano i sogni. E ha ragione anche Vorospi, le scarpe sono insensibili. Lo motiva bene il sito “Le storie di Mitia” (www.lestoriedimitia.it). Nell’articolo “L’amore non ha scarpe”, l’autrice ricorda che quando si parla di stragi o di morti ammazzati, ai tg vengono inquadrate sempre le scarpe. “Ballerine, scarpe da uomo in cuoio, ciabatte sgangherate, infradito mezzi rotti, scarpe piccole da bambino, scarpe grandi e usurate, portate da generazioni, rimesse a posto come si poteva, scarpe impolverate, scarpe usate, scarpe morte”. L’idea che prevale è che “chi mi porta non c’è più”.

“La morte ti porta via le scarpe, forse è per quello che anche se non ce l’ha mai detto nessuno, l’amore lo viviamo da scalzi”, chiude l’autrice.