Durante le festività natalizie sono stata con un gruppo di quaranta persone dell’Associazione per la Pace, per una settimana in Israele e Palestina, e mi sembra utile comunicare questa esperienza ai lettori di una rivista come «Conexìon», anche se purtroppo riguarda una situazione non di convergenza di culture, ma di conflitto, ingiustizia e sofferenza.
Avevo già visitato Gerusalemme, Betlemme, Nazaret e una parte della Valle del Giordano, durante un itinerario turistico centrato sulle località importanti per il cristianesimo perché relative alla vita di Gesù. Avevo anche visitato luoghi importanti per l’ebraismo come il “Muro del pianto” e il Museo della Shoah e infine la spianata delle moschee antistante la moschea di al-Aqsa importante per i musulmani. Gerusalemme, che contiene appunto questi luoghi, potrebbe essere un esempio di convivenza basata sul rispetto delle caratteristiche e dei diritti di tutti. Purtroppo però non è così perché il governo israeliano e, disgraziatamente, gran parte dell’opinione pubblica desiderano ottenere il controllo di tutta la città e di quasi tutto il territorio senza tener conto delle risoluzioni internazionali e dei diritti dei Palestinesi. Questo giudizio severo è basato sui fatti e a me sembra giusto e rispettoso verso Israele, le sue origini e la sua storia, valutare il suo comportamento con lo stesso metro con cui si valuta quello di qualunque altro Stato richiedendogli di rispettare la legalità internazionale e di perseguire una giusta convivenza tra i popoli. Torniamo però alla narrazione del nostro viaggio: non ci siamo limitati a visitare Gerusalemme e Betlemme, ma siamo stati anche nei territori palestinesi occupati sin dal 1967 visitando le città di Tulkarem, Nablus, Hebron e Ramallah e i villaggi di Bil’in e At-Tuwani. Siamo stati anche nella Valle del Giordano e ad Haifa e a Jaffa passando per Tel Aviv. In tal modo abbiamo potuto conoscere la situazione della popolazione palestinese, le loro dure condizioni di vita dovute al muro, ai posti di blocco, agli insediamenti dei coloni e ai vari aspetti dell’occupazione militare, ma abbiamo anche conosciuto le forme di resistenza nonviolenta messe in atto da tempo da diversi comitati popolari e che l’opinione pubblica internazionale purtroppo ignora. Sento di dover sottolineare il fatto che da tempo non si verificano azioni violente da parte palestinese; al contrario, la società civile locale, supportata da volontari internazionali, da alcuni israeliani coraggiosi e consapevoli e talvolta dalla legittima Autorità Nazionale Palestinese e da Organismi ufficiali (ONU e UE), sta costruendo opere di pace e promozione umana come scuole, centri culturali, giovanili e di donne, in particolare: la al Quds University di Gerusalemme, l’Università di Tulkarem, il Centro Human Supporters di Nablus, le scuole musicali di Ramallah e Haifa e la scuola di restauro di Hebron. Haifa, Nablus ed Hebron sono situazioni particolarmente difficili perché nella prima, in territorio israeliano, la minoranza arabo-palestinese subisce forti discriminazioni, nelle altre due città, che in teoria sarebbero amministrate dall’ANP, i militari e i coloni esercitano, a loro arbitrio un potere reale basato sulla forza. In queste condizioni i succitati Centri operano attivamente il primo per l’educazione di bambini e adolescenti musulmani, cristiani e samaritani insieme e il secondo per il recupero urbanistico e sociale del centro storico reso difficile dalla presenza di coloni all’interno della città che ha comportato la divisione di strade e quartieri e l’installazioni di posti di blocco con relativa sorveglianza armata: i bambini che vanno a scuola devono passare attraverso i tornelli ed essere controllati uno per uno ogni giorno. Il centro storico ha un notevole valore, tanto che si spera di ottenere da parte dell’Unesco il riconoscimento di “patrimonio dell’umanità”. In alcuni villaggi si attuano azioni dirette nonviolente; ad At-Tuwani una scuola è stata costruita quasi clandestinamente ed è frequentata anche da bambini di altri villaggi che spesso subiscono aggressioni da parte di coloni dei vicini insediamenti. Gli abitanti poi piantano e ripiantano alberi proibiti (sic!) sotto l’occhio vigile di militari armati. A Bil’in si manifesta ogni venerdì affinché almeno venga modificato il tracciato del muro (come stabilito da un tribunale israeliano con sentenza finora inapplicata!), le risposte repressive come arresti e lanci di potenti gas lacrimogeni, che anche noi abbiamo respirato pur da lontano e a causa dei quali una donna del villaggio (Jawaher, 34 anni) proprio durante il nostro soggiorno è rimasta intossicata ed è morta. Infine a Gerusalemme Est, nei quartieri di Sheikh Jarrah e di Silwan, centinaia di famiglie palestinesi sono state espulse dalle loro case o rischiano di esserlo tra breve, perché il governo e l’amministrazione cittadina hanno deciso di realizzare al loro posto scavi archeologici, un parco e nuovi eleganti appartamenti. La tristezza di queste persone, quando ci parlavano del problema, era così grande che merita davvero di essere conosciuta non dimenticando che solo il riconoscimento dei diritti di tutti potrà condurre ad una pace giusta. Il nostro viaggio si è concluso in una Betlemme resa più viva e meno povera dalla presenza di numerosi pellegrini, ma pur sempre circondata dal muro e da numerosi e severi posti di blocco. Mi è rimasta impressa l’immagine della piazza antistante la basilica della Natività, piena di sole e di una folla multicolore proveniente da tante parti del mondo (in quel momento c’erano tanti nigeriani nei loro caratteristici costumi): una piazza in cui la basilica e la moschea si “fronteggiano” pacificamente e che potrebbe diventare il simbolo di una bella convivenza tra le diversità, ma che purtroppo per ora non lo è. |