Siamo tutti “Charlie” (finché siamo vivi) |
di PierVittorio Formichetti Qualche parola in più l’attentato di Parigi alla redazione del giornale satirico “Charlie Hébdo” la merita. È impossibile non condannare la strage perpetrata dai due fratelli Kouachi, estremisti islamici armati, che è costata la vita a 12 redattori del settimanale – hebdo deriva dal greco e indica infatti una periodizzazione per sette: Hebdomeros (= del settimo giorno) si intitola uno stravagante romanzo pubblicato nel 1929 dal celebre pittore Giorgio de Chirico; l’hebdomadarius, nei monasteri medievali, era il monaco che per una settimana, anziché consumare il pasto, leggeva i brani stabiliti delle sacre Scritture o dei capitoli della regola del proprio ordine mentre i confratelli mangiavano – ma anche ai quattro ostaggi ebrei sequestrati da un terzo attentatore all’interno di un supermercato di alimenti kasher (cioè leciti dal punto di vista delle norme religiose ebraiche) in cui, è bene ricordare, lavoravano anche dipendenti mussulmani, come Lassana Bathily, il ventiquattrenne africano del Mali che ha rischiato la vita per salvare alcuni degli ostaggi (chi capisca il francese e non pensi che “gli unici immigrati buoni sono quelli morti” può leggere la storia di Bathily qui!), e infine il poliziotto Ahmed, di origine maghrebina e anche lui mussulmano. Nessuno può giustificare un atto terroristico come questo, ma neanche pensare di restringere la libertà di satira. È stato ampiamente messo in luce dai mass media, giustamente, che la popolazione islamica, prima francese e poi del resto d’Europa, ha dichiarato subito che l’Islam in sé non ha niente a che fare con questo e con altri atti criminali, e che i giornalisti e i disegnatori di “Charlie Hébdo” combattevano con matita e colori proprio il fanatismo religioso, il razzismo e il terrorismo, ma non le religioni. Questo è vero in parte; alcune vignette avevano come obiettivo personaggi non soltanto non religiosi, ma anche laici e francesi, quali il presidente della repubblica François Hollande, socialista, e la leader dell’estrema destra parlamentare Marine Le Pen (che il giornale satirico ha infatti raffigurato mentre, osservando un gruppo di migranti africani che naufragano e annegano, sogghigna: «Anche il mar Mediterraneo adotta il mio programma!»). Ma la satira di “Charlie Hébdo” bersagliava anche ambiti e persone non legate al fanatismo religioso: in una vignetta appare il papa emerito Benedetto XVI che, dopo la rinuncia al ministero petrino, si abbraccia romanticamente con una guardia svizzera ed esclama «Finalmente liberi!». In un’altra, qualcuno che non si vede spara con una mitragliatrice contro un mussulmano, che si ripara dai colpi con il Corano, che ovviamente non lo salva dai proiettili; il titolo di questa è, di conseguenza, Le Coran c’est de la merde (non credo serva tradurre). In un’altra vignetta ancora, ispirata al “no” della Chiesa cattolica ai matrimoni omosessuali, appaiono Dio (raffigurato come un vecchietto ebete), Gesù (chissà perché, color rosa Big Babol) e lo Spirito Santo, sotto forma del classico triangolo luminoso, che si sodomizzano a vicenda in un festoso “trenino” . Non tutte le vignette erano corrosive come queste, ma c’erano anche queste, e non mi sembra che siano così improntate a contrastare il fanatismo dei fondamentalisti islamici. È vero che la satira come genere artistico-letterario in sé può piacere o non piacere, è vero che si può essere d’accordo o no sul messaggio che essa trasmette, e che l’irriverenza è l’essenza della satira. Anch’io apprezzo la satira, ma non la satira che offende pesantemente qualcuno, di qualunque cultura o religione sia. È normale quindi che la satira sia pungente, purché però trasmetta effettivamente un messaggio importante; e non tutte le vignette volevano trasmettere, o effettivamente trasmettevano, un messaggio critico; alcune, come quelle prese ad esempio, non erano che pure provocazioni, dirette alle religioni in quanto tali e indipendentemente da quali religioni fossero (e infatti vi si trovavano anche vignette, per esempio, sull’ebraismo); come dichiarato, del resto, qualche anno fa dal suo stesso direttore Stéphane “Charb” Charbonnier (anche lui rimasto vittima nell’attentato), che definiva il suo periodico «contro tutte le chiese». Nessuna persona sana di mente preferirebbe il terrorismo, religioso e non religioso, alla pubblicazione di una vignetta “blasfema” (la partecipazione popolare, in Francia soprattutto e in tutta Europa, alle manifestazioni per la libertà di espressione e per la solidarietà alla redazione del giornale satirico è stata infatti molto numerosa e il cartello «Je suis Charlie» ha in poche ore fatto il giro del mondo grazie a internet), ma il punto è un altro: perché qualcuno (...noi) dovrebbe trovare divertente che si ridicolizzino le tradizioni religiose di una società (indipendentemente da quali siano: cristianesimo, buddismo, ebraismo ...)? Allora nasce il dubbio: non che qualcosa possa giustificare un attentato terroristico, ma che ci sia anche un problema culturale nei Paesi democratici occidentali ed europei, per cui il massimo senso della libertà di stampa, di arte, di cultura (tutte cose sacrosante) sembra ormai dover consistere, secondo qualcuno, soltanto nel deridere e irridere qualsiasi tradizione come se nessuna di esse meritasse di essere conosciuta e rispettata in quanto prodotto, e perciò vissuto, umano, anche se “anticonformista”. Esiste una pagina di Facebook, tra le tante di valore discutibile, che si chiama “Uso il sarcasmo perché uccidere è illegale”; la ‘filosofia’ che sembra esserci dietro certe forme di satira è in un certo senso quella espressa da questo titolo, ossia che la vera volontà di chi la realizza e di chi la condivide sia in realtà la distruzione intellettuale dell’avversario; la volontà di «seppellirlo sotto una risata», secondo uno slogan che ormai ha più di quarant’anni... Ma la psicologia insegna (link) che l’intelligenza di contraddizione da sola è una «intelligenza povera, [portata] all’ironia, al sarcasmo, al ridicolo, a trovare la parte ridicola e vulnerabile dell’avversario e a rifuggire dalla consistenza dei vari argomenti», che tende a togliere agli altri perché non sa dare. Da questo punto di vista, quindi, l’intelligenza, e soprattutto l’intellighenzia delle democrazie europee si trovano forse sulla soglia di povertà? Si potrebbe pensare anche che la libertà di espressione, di stampa e di satira siano state intese come l’unico valore in questione, quasi senza notare un altro problema, se non superiore, almeno di pari importanza: cioè che esistono gruppi di terroristi armati, che viaggiano liberamente da una sponda del mar Mediterraneo all’altra e in giro per l’Europa, e che possono, a quanto pare, avere accesso a qualunque luogo in cui compiere, eventualmente, un eccidio; senza che, almeno ufficialmente, nemmeno i servizi segreti dei vari Stati ne sappiano qualcosa. È indubbio che sia sempre meglio «essere Charlie» e ridere delle vignette dissacranti, piuttosto che essere assassini fondamentalisti; ma non vorremmo nemmeno essere come i sudditi del tardo impero romano, ormai in disfacimento, descritti dall’antico scrittore Salviano proprio in termini di satira: «Mentre su di noi incombe il timore della morte, noi ridiamo. Si direbbe che tutto il popolo romano abbia, per così dire, mangiato dell’erba sardonica: muore e ride...». |