Monsieur le Marabout
Interviste
Scritto da Silvia Licata   

 Un giorno fatale, quest’estate, mi si è presentata l’occasione di andare in visita a una persona speciale. E altrettanto fatale. È stato così che mi sono trovata nella stanza, vuota, di un albergo torinese, seduta per terra e con i piedi nudi, insieme a diverse altre persone, la maggioranza di provenienza africana e, in particolare, senegalese. In quell’istante, ancora non sapevo che in tale stanza sarei tornata molte altre volte e che questa esperienza, concedetemi l’espressione, incredibilmente incredibile, mi avrebbe lasciato sia un solco profondo nell’anima sia portato dei grandi regali. Io, protagonista di questo evento, tutt’ora non ci credo, ma voi, leggendo questo mio scritto, che più che essere un articolo, è una dedica, un pensiero, a quell’essere fatale e speciale che ho incontrato, vi chiedo di credermi. Credetemi.

La persona che mi ha condotto lì, una carissima amica, mi ha detto in seguito che sono stata l’unica a cui ha proposto di andarci, perché, «bisogna essere pronti, non tutti lo sono e capirebbero, ma tu sì, ecco perché sei qui con me oggi». In realtà, come già detto non solo quell’oggi, ma anche altri giorni a seguire.

Lì seduta, con questa amica, stavo aspettando il mio turno di entrare nella stanza accanto. Dove avrei avuto il mio incontro miracoloso. Nel frattempo, conversando, osservando, ero totalmente avvolta dall’odore del caffè Touba che mi veniva offerto. Un odore che riconoscerei tra un milione e che adesso mi porterebbe istantanea-
mente ai ricordi di quei momenti di cui tra poco vi racconterò.

Finalmente, stavamo entrando, la mia amica e io. In quell’altra stanza. Ci siamo accomodate di fronte a questa figura particolarissima, profonda e bellissima. Un uomo di colore, nero come l’ebano, il cui colore contrastava magicamente con l’abito religioso, il copricapo e le calzature leggere e a punta, tutto rigorosamente bianco. Era seduto su una sedia senza importanza, circondato di scritti e di oggetti sparsi in giro, tutti legati alla sua sacralità, ai suoi riti. Che forse, o sicuramente, a un occidentale potrebbero sembrare bizzarri. Eppure, il suo mistero è fatto anche di questo. Ed è per la stessa ragione che non entrerò nel dettaglio di quali oggetti vi fossero. Il mistero del Marabout va preservato.

Conoscevo già la figura del Marabout. Attraverso ciò che avevo appreso studiando Letterature Francofone all’Università di Torino, attraverso tutto ciò che avevo letto nei racconti su di lui. Ma in quel momento ce l’avevo lì di fronte agli occhi, ed era totalmente diverso. Perché è così che si comprende davvero il suo misticismo, la sua forza. E perché si vede davvero attraverso i suoi occhi il suo mondo, quello così lontano dell’Africa e dei suoi riti, che finora avevo solo potuto leggere o studiare.

E voi? Conoscete il Marabout? Questa è una parola francesizzata, ma il termine è di origine araba e indica una figura religiosa musulmana divenuta santa, anche se nella realtà l’ortodossia islamica lo rifiuta perché, in effetti, appartiene più all’animismo africano (riferendomi all’Africa Nera) e in particolare senegalese, che non al Nord Africa, di tradizione araba. Ciò che lo lega al mondo musulmano è l’Islam, lo studio del Corano, ma a parte ciò, si tratta di un personaggio a cui vengono attribuite virtù magiche, poteri soprannaturali, profetici ed è proprio questo che non viene accettato dal mondo arabo, anche se, tra gli ospiti presenti in attesa di essere ricevuti in quella stanza d’albergo, ho visto anche nordafricani. E poi, cubani, brasiliani, dominicani. Ma qui entriamo nell’ambito della santeria. Che è meglio rimandare ad un altro appuntamento.

La mia prima reazione incontrando il Marabout è stata il pianto. Come se fosse stato capace di vedere dentro di me senza che neanche parlassi. È passato qualche mese da allora, ma ricordo perfettamente la sua voce e il suo modo di dire “Insciallah”, mangiandosi la prima sillaba. Non so quante altre volte sia stata da lui, non le ho contate, ma sembra che sia andata a trovarlo da tutta la vita. Poi, un bel giorno, mi sono ripresentata e lui non c’era più. Sparito. Volatilizzato. Come se da lì non fosse mai passato. In hotel, alla receptionist mi è stato detto: “Partito. Ieri.” Ma anche in questa frase, ho sentito il mistero. Come se tutto quello che era successo fino allora lì dentro non fosse in realtà avvenuto. Sono andata via sgomenta, e ancora adesso non so spiegare il tipo di sentimento provato in quell’istante. Mi sono ripresa molto lentamente, mi ci sono voluti dei giorni, e non vi so spiegare perché. Passata qualche settimana, ero in casa e inavvertitamente ho premuto il tasto della fotocamera del mio Blackberry. Ed è successo un fatto incredibile. La foto appena scattata a casaccio mostrava un volto, di un uomo di colore, dai lineamenti ultraterreni, direi persino non terrestri. Eppure ero sola in casa, e non ho parenti o conoscenti di colore.

Ciò che mi è successo da quel momento è uno strano susseguirsi a catena di eventi misteriosi, legati a elementi importanti della mia vita e che mi fanno intuire sempre di più la potenza di questo personaggio. Così come il suo mistero, che non è di questo mondo, e non arriva da lontano, ma dall’oltre.

L’ultima volta che l’avevo visto, gli avevo regalato due poesie di Léopold Sédar Senghor, poeta ed ex-Presidente del Senegal. Non vi dirò quali, perché anche questo rientra nel suo mistero, di cui sono diventata co-protagonista. Tuttavia, posso salutarvi con queste altre parole di Senghor, tratte da C’est le temps de partir:

«C’est le temps de partir, que je n’enfonce plus avant mes racines de ficus dans cette terre grasse et molle[…]/J’ai soif j’ai soif d’espaces et d’eaux nouvelles, et de boire à l’urne d’un visage nouveau dans le soleil/Et ne m’écartent pas les chambres d’hôtel ni la solitude retentissante des grandes cités/Est-ce le Printemps – partir! – cette première sueur nocturne, le réveil dans l’ivresse… l’attente…»