Italiana o cittadina del mondo?
Interviste
Scritto da Daniela Brina   

Intervista a Cristina Delpiano

Italiana o cittadina del mondo?


Cristina ha una storia personale e lavorativa estremamente “multietnica”. Io l’ho conosciuta come insegnante di cinese, ma poi ho scoperto altre cose della sua vita e le ho chiesto di raccontarci qualcosa per i nostri lettori, quale esempio di quanto possa essere bello, appassionante e arricchente l’incontro con persone di culture diverse. E parlando un po’ con lei di certo non si hanno dubbi su questo.

Cristina, tu sei stata in Cina per imparare la lingua in anni in cui ancora non si sentiva molto parlare di cinesi e di Cina. Come mai hai avuto questo interesse?

Avevo finito il liceo classico e ritenevo di conoscere abbastanza la nostra cultura, ma quasi nulla di altre, in particolare di quelle orientali. Allora ho deciso di iscrivermi a lingue orientali, era il 1993. Ma quasi subito, avendo solo qualche rudimento di cinese, ho deciso di andare un anno a Pechino per studiare. Tornata a Torino, ho ripreso a studiare cinese, ma l’approccio alla lingua era di tipo economico-commerciale, e a me non interessava. Allora sono ritornata a Pechino per un altro anno. Quando sono tornata per la seconda volta, ho deciso di cambiare indirizzo di studi, essendo appunto la mia curiosità più rivolta agli aspetti storici e letterari: mi sono perciò laureata in storia, specializzandomi in storia asiatica. La mia tesi di laurea è stata sulla comunità cinese di Torino e di altre parti d’Italia con alta presenza di cinesi (Prato, Milano...); in quegli nessuno aveva ancora fatto uno studio sul territorio torinese.

Come non chiederti nulla della Cina di quegli anni...

Beh, il primo anno è stato molto impegnativo. In quel periodo gli occidentali che studiavano in Cina erano pochissimi, per non parlare in specifico degli italiani. Mi sono perciò ritrovata a 19 anni, alla mia prima esperienza all’estero, senza nessuno che parlasse la mia lingua e non era neanche sempre possibile parlare in inglese. Ad esempio la mia compagna di stanza era una coreana che non parlava l’inglese. Era un mondo completamente diverso dal nostro, non si trovava niente di occidentale, neanche il cibo. Non c’era internet e con gli amici ci scrivevamo lettere che venivano sempre aperte per un controllo. C’erano moltissime biciclette, mezzo di locomozione per eccellenza. E studiavo 7 ore al giorno lingua cinese insegnata in cinese. È stata però un’esperienza formativa eccezionale, nonché  la mia prima esperienza di multietnicità: era infatti pieno di studenti che arrivavano da ogni parte del mondo, molti dei quali erano africani che studiavano il cinese per poi iscriversi a ingegneria o altre facoltà tecniche a Pechino.

Sei poi tornata altre volte? È stato diverso?

Il mio secondo viaggio di studio è stato più agevole e rilassato. Avevo una compagna di stanza italiana e, di fatto, ho studiato molto meno... La Cina era già cambiata molto in poco tempo. Ho fatto poi altri due viaggi, uno nel ‘98 come interprete di un gruppo di volontari e, infine, nel 2005 per immergermi un po’ nella vita cinese. Il cambiamento è stato totale, non era più la Cina che conoscevo.

Hai avuto modo di conoscere cinesi, di entrare in confidenza?

In generale è un po’ difficile fare conoscenza e soprattutto entrare in confidenza. Nel primo viaggio i cinesi che ho conosciuto studiavano ed erano totalmente immersi nella preparazione degli esami perché, se non li passavano, sarebbero tornati dalle campagne da cui provenivano. Nel viaggio del 2005 mi sono iscritta in palestra proprio con l’obiettivo di conoscere persone e immergermi nel quartiere.

Qui in Italia, invece, il rapporto è sempre insegnante-allievo: loro sono veramente carini e mi riempiono di regali, ma la relazione è sempre di riverenza.

Veniamo invece alla tua passione, l’insegnamento...

Sì, ho iniziato ad insegnare già mentre studiavo. All’epoca (‘97) iniziavano ad esserci i primi cinesi ma non c’erano molte persone che conoscevano il cinese, perciò fui chiamata da una scuola media per insegnare italiano ai cinesi e ad altri ragazzi stranieri. Dopo la laurea ho fatto supplenze nelle scuole con le materie che potevo insegnare, quindi storia, geografia e italiano, ma parallelamente insegnavo italiano agli stranieri nel “CTP Giulio” della scuola pubblica.

Da tre anni tengo corsi intensivi di italiano per i rifugiati, grazie ai fondi dell’ufficio Stranieri di Torino (progetto “Torino hopeland”). Qui incontro somali, afghani, guineani, congolesi, iraniani...

Dal 2005, su segnalazione di un’amica cinese che lasciava l’insegnamento, ho iniziato a tenere i corsi di cinese all’Università Popolare di Torino; era la mia prima esperienza di insegnamento della lingua cinese. Inoltre tengo corsi per i cinesi dalle 15 alle 17, perché sono gli orari in cui sono liberi dal lavoro nella ristorazione che li impegna per la maggior parte. I corsi sono molto frequentati, ormai mi conoscono e si passano parola. Per loro è molto importante e motivante il fatto che la loro maestra conosca il cinese, ne sono molto felici. Inoltre è utilissimo per aiutarli nell’imparare una lingua che ha una struttura completamente diversa dalla loro, è molto più difficile riuscire a farlo non conoscendo il cinese e le sue strutture fondamentali.

Qui in Italia, purtroppo, non ci sono corsi intensivi di italiano per gli stranieri che vengono qui a studiare, né per l’università né per i livelli inferiori. Per questo spesso i ragazzi vengono bocciati. Inoltre gli insegnanti sono spesso “inadeguati”, non si rendono conto delle difficoltà e non si mettono nei panni dell’altro. Una volta la preside di una scuola media mi ha chiesto di fare qualche incontro per insegnanti sulla cultura cinese, vista la presenza di molti studenti cinesi. Gli insegnanti mi hanno accolta con indifferenza, continuando a correggere i compiti o a leggere il giornale. Allora ho provato una “tecnica d’urto”: ho iniziato a parlare in cinese e sono andata avanti per qualche minuto. Quando tutti mi guardavano sbigottiti, pensando che fossi pazza, ho detto: “Così è come si sentono i vostri studenti stranieri in classe”. Manca consapevolezza e curiosità nell’altro e nella sua cultura, e quindi molto sovente si pecca di insensibilità. Gli aneddoti in questo senso non mi mancano. In un altro caso, nell’esperienza con i rifugiati, la preside parlando con una signora congolese che aveva alle spalle una storia terribile (era una maestra nel suo paese che aveva dovuto lasciare marito e figli in Kenya), le chiese: “ma quindi lei fa la maestra, deve amare molto i bambini. Ha figli?”. La signora scoppiò a piangere nello sbigottimento della preside. Bisogna essere preparati al fatto che i rifugiati arrivano sempre da situazioni incredibili e di grande sofferenza, e bisogna avere molto tatto. Ma se non si conosce un minimo di storia e di cultura di questi paesi, si commettono molti errori.

Insegno inoltre l’italiano al campus dell’ONU (ex BIT “Bureau International du Travail”), dove mi confronto con funzionari e dirigenti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che devono passare a Torino vari mesi per formarsi, diventando potenziali ambasciatori nel mondo. Un’esperienza ancora diversa e altrettanto arricchente.

E invece come hai conosciuto tuo marito?

Mio marito è del Cameroon e l’ho conosciuto alla festa di laurea di una ragazza etiope che avevo aiutato per la sua tesi di laurea. Io avevo revisionato l’italiano, mentre mio marito l’aveva aiutata dal punto di vista medico, essendo la tesi sull’infibulazione e lui un medico di professione.

Noi abbiamo l’idea che per un africano una moglie bianca sia il massimo. Invece non è così. La sua famiglia avrebbe preferito una moglie africana che magari avrebbe fatto sì che il figlio tornasse al suo paese. Ho sperimentato perciò una sorta di “Indovina chi viene a cena?” (Ndr – film con Sidney Poitier sulla “coppia mista” in USA) al contrario; abbiamo vissuto insieme per 3 anni prima che lui parlasse ai suoi genitori di me. Il fatto che io parlassi il francese e fossi molto aperta ha poi pemesso che mi vedessero in una luce migliore. La storia con mio marito mi ha reso ancora più consapevole di quanti siano gli stereotipi che noi “bianchi” ci portiamo dietro sugli africani. La sua famiglia è benestante, tutti i figli hanno studiato all’estero, lui è medico. Eppure nessuno pensa mai che siamo sposati, quando lavora in ambulanza non pensano che lui sia il medico...

A proposito di stereotipi, vi consiglio la lettura del libro “Imbarazzismi” (edizioni dell’Arco) di Kossi Komla-Ebri, un medico del Togo che vive in Italia. Sono tutti aneddoti sui nostri insensati pregiudizi, divertenti ma che fanno riflettere.

Con tutte le cose che hai da raccontare, senza accorgercene, sono passate più di due ore! Un’ultima domanda: come mai tanta passione, che traspare dalle tue parole e dal rapporto che hai con i tuoi ex-allievi, per l’insegnamento agli stranieri?

Io sono l’insegnante per la lingua, ma quello che imparo da loro è immensamente più grande. Per me l’insegnamento è condivisione, conoscenza reciproca. Loro sono importanti, la loro diversità, il loro carattere e le loro culture così diverse. E io sento di essere ogni giorno più ricca dentro grazie a loro.