George Jackson, il “fratello di Soledad” Stampa
Articoli - Interviste
Soledad (in spagnolo «solitudine») è una città californiana che ospita una delle carceri di massima sicurezza degli Stati Uniti d’America, e «fratelli di Soledad» è il soprannome di John Clutchette, FleetaDrumgo e George Lester Jackson. «Fratelli» si chiamavano tra loro i neri d’America impegnati nelle lotte per i diritti civili e l’antirazzismo; tutti e tre, infatti, sono giovani di colore tra i 20 e i 30 anni e l’epoca della loro vicenda è il decennio 1960-1970.

Nel 1970, in una rissa a sfondo razziale scoppiata tra detenuti bianchi e negri nel cortile di Soledad, tre fra quelli di colore sono uccisi dalla mitragliatrice della guardia preposta alla sorveglianza, mentre un solo bianco rimane ferito. I detenuti neri protestano anche con lo sciopero della fame; pochi giorni dopo, nel braccio Y di Soledad, una guardia è trovata morta forse per essere stata picchiata e scaraventata giù da un piano di celle. Si pensa subito ad una vendetta razziale, e tra i prigionieri, Clutchette, Drumgo e Jackson sono immediatamente accusati anche perché oltre che neri, sono politicamente impegnati. L’imputazione d’omicidio prevede la condanna a morte, perciò per i tre afroamericani si prospetta, come minimo, l’ergastolo. Dei tre, George Lester Jackson nel 1970 ha 28 anni e ha già alle spalle 10 anni di carcere, poiché il ragazzo, sebbene molto intelligente, non è mai stato un tranquillo: nato nei miseri quartieri-ghetto di Chicago, a 6 anni tenta di far esplodere un fusto di nafta con dei fiammiferi e si salva dalle ustioni solo grazie all’intervento della sorella maggiore; a 15 anni viene più volte riaccompagnato a casa a manganellate dalla polizia che lo ha sorpreso in qualche furto, compreso quello di un’automobile con cui si era schiantato contro la vetrina di un barbiere. Quando la famiglia si trasferisce a Los Angeles, George sfugge per miracolo alla morte in una sparatoria con la polizia dopo un furto con scasso insieme con altri due, e per la prima volta trascorre qualche mese in carcere; nel 1960, maggiorenne, partecipa ad una rapina ad un distributore di benzina guidando l’auto del ladro, ma è fermato. Fidandosi di pessimi consigli legali, si costituisce, pensando di affrontare al massimo un anno di prigione in un carcere della contea; viene invece rinchiuso nella prigione statale, con la condanna da un anno al carcere a vita. La procedura prevede che il detenuto, trascorso l’anno di carcere, sia esaminato da una commissione, il «Parole Board», che può decidere di liberarlo per la sua buona condotta; ma nelle prigioni americane degli anni ’60 la violenza razzista è quotidiana, e se il detenuto si ribella, ad aggravarsi è la sua condizione. Tra il 1960 e il 1970 Jackson passa dal carcere di Los Angeles a quello di Chino, a quello di Soledad (1961), a San Quintino, dove è ripetutamente posto in isolamento per risse razziali (1962-1969), infine recluso di nuovo a Soledad, in isolamento.

Durante la sua prigionia scrisse molte lettere; tutte quelle precedenti il giugno del 1964 sono andate accidentalmente distrutte e secondo l’autore erano «estremamente amare». Secondo il regolamento delle prigioni californiane, dovevano essere scritte sulle due facciate di un solo foglio a righe, alto 11 pollici e largo 8 1/2, in pratica un po’ più piccolo di un normale foglio da fotocopie, ed erano quasi sempre corrette o censurate dalle autorità carcerarie; quando poi si trovava in isolamento, gli era consentito scrivere una volta sola la settimana. La maggior parte delle lettere di Jackson rimaste, circa 170 dal 1964 al 1970, sono indirizzate a suo padre (che egli dal settembre del 1965 chiamerà sempre con il nome di battesimo, Robert) e a sua madre Georgia; seguono per quantità quelle alla signora Fay Stender, l’avvocata che difese i tre «fratelli di Soledad» (e che prese gli accordi per la pubblicazione delle lettere), e quelle al fratello minore Jonathan Peter, che seguendo l’ideale della rivolta armata, rimase ucciso in una sparatoria con le guardie del tribunale di San Rafael in California, dove aveva incitato alla ribellione due detenuti neri in aula come testimoni, lanciando loro delle pistole e sparando lui stesso. Altri due gruppi di lettere sono quelle inviate ad Angela Yvonne Davis, militante comunista, e a una tale Joan, membro del collegio dei suoi difensori.

Da queste lettere emerge l’esperienza del carcere come un luogo infernale («lo strepito, la follia emessa da ogni gola, i colpi suggeriti dalla frustrazione contro le sbarre, i tonfi metallici, i suoni cavernosi emessi da un lavabo di ghisa o da un gabinetto»), soprattutto per un nero: il prigioniero può essere rinchiuso in una cella senza luce e senza finestra, con i muri e il pavimento sporchi degli escrementi dei precedenti detenuti. Le guardie carcerarie favoriscono risse razziali tra i prigionieri, incoraggiando i bianchi a provocare i neri con insulti e minacce, assegnando ad un nero la cella tra quelle dei bianchi e giungendo a vendere, ai bianchi, fionde e coltelli. Quando le guardie intervengono per sedare una rissa, spesso sparano disinvoltamente «sul più scuro dei due uomini che si azzuffano»; George sente persino alcune guardie proporre «ad alcuni dei più depravati detenuti bianchi dello Stato: “Ammazza Jackson e faremo qualcosa per te”». Se il detenuto è in punizione, la dieta giornaliera può consistere in due piccole teglie di cibo mescolato, «come gli alimenti per cani». Se piove a dirotto e ci si trova in cortile, i bianchi occupano lo spazio sotto le tettoie, impediscono l’accesso ai neri, e le guardie lasciano fare. Nella sala della televisione, ai bianchi sono assegnate le sedie con schienale e braccioli e talvolta cuscini, ai neri soltanto panche in fondo alla sala. Si rimane in cella 23 ore e mezza su 24 per sei giorni alla settimana; il prigioniero, quando può uscire, è ammanettato e le manette sono legate alla vita con una catena; nella mezz’ora libera, può fare la doccia o un po’ di movimento davanti alla propria cella, ma quando è il turno dei bianchi, i neri sono rigorosamente reclusi e «i più perversi dei “piccoli aiutanti di Hitler” conservano i loro escrementi per gettarli nelle nostre celle mentre vanno avanti e indietro per la doccia e il moto. La me…a ci vola letteralmente addosso quasi ogni giorno». Un’ispezione dello stato della California nello stesso 1970 scoprì che tra le guardie c’era chi incoraggiava i detenuti bianchi a mescolare nelle razioni di cibo dei neri «urina, polvere di vetro o detergenti». Le perquisizioni consistono in ingressi improvvisi delle guardie nella cella, manganellate e devastazione dei pochi effetti personali del detenuto, che curiosamente nella maggior parte dei casi è di colore. Gli insulti sono quotidiani: negraccio schifoso, scimmia, selvaggio, caprone, bambino, scarpa, in altre parole «qualcosa che si calpesta»; si trovano bigliettini tra le pagine del giornale con messaggi come “Caro negraccio, ti auguro di morire”.

Mentre Jackson e migliaia di altri detenuti neri degli USA vivono in queste condizioni, fuori del carcere i tumulti razziali e la violenza imperversano: nel 1965 estremisti neri assassinano Malcolm X, nel ’66 nasce in California il movimento Black Panthers, nel ’68 sono assassinati Martin Luther King e John F. Kennedy; ovunque ai linciaggi razzisti seguono le rivolte dei “ghetti” neri e la repressione armata da parte della polizia. Alcune di queste notizie giungono anche nelle celle d’isolamento di San Quintino e di Soledad; anche per questo, Jackson ripensando alla storia dello schiavismo perpetrato dai governi d’Europa e d’America, e al razzismo che ha contraddistinto fino a quel momento la società anglosassone, prende maggiore coscienza della situazione di inferiorità in cui sono stati costretti i neri degli USA.

[I fratelli di Soledad. Lettere dal carcere di George Jackson, Torino, Einaudi, 1970, pp. XVI + 284]