Il vero miracolo è il perdono Stampa
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Sedici anni appena, occhi grandi, sorriso timido, e un destino segnato da una sorte che ha dell’incredibile.

Malala Yousafzai ha visto la morte in faccia: un proiettile le ha attraversato la testa,

invece di ammazzarla, l’ha resa immortale. Malala è diventata un simbolo globale, da Nuova Delhi a Dublino, sui giornali e sugli schermi di tutto il mondo, tutti la conoscono: è la ragazza pachistana colpita da un ragazzo talebano che non voleva che lei andasse a scuola.

“Io non ricordo niente di quel momento” ha raccontato, “sono state le mie amiche a raccontarmi che a quel ragazzo tremava la mano, mentre mi stava sparando, poco più di un anno fa”. Non c’è sete di vendetta nella voce della giovane “martire”: “Ricordo solo che era in età giovanile, forse aveva vent’anni…, ma io non riesco ad immaginare di fargli del male. Io credo nella pace. Io credo nella clemenza”.

Caricata d’urgenza su un aereo che l’ha trasportata a Birmingham, Malala è miracolosamente sopravvissuta, e ha cominciato a raccontare il suo miracolo al mondo intero. Amnesty International le ha riservato un premio speciale, ha vinto il Sakarov e ha sfiorato il Nobel per la Pace. Di fronte a tutto questo lei ha mantenuto una grazia e un candore davvero grandi, grandi come le parole che sa sempre trovare dentro di se davanti a qualsiasi platea si troverà a parlare: “È duro avere una pistola in mano e uccidere la gente. Forse pensava di non riuscirci. C’è tanta gente a cui è fatto il lavaggio del cervello. Ecco perché ci sono gli attacchi suicidi e i massacri, e tante cose così orrende”.

Nel suo paese d’origine però, a Malala è riservato disprezzo e sono in molti ad accusarla di aver sfruttato la sua storia per accumulare ricchezze all’estero.”Certo “ spiega lei, che ancora oggi vive in Inghilterra, “fa male vedere i tuoi fratelli rivoltarsi contro di te. Il problema è che il Pakistan è un paese che non riesce più ad avere fiducia. La storia ha insegnato loro che le persone che hanno il potere, e in particolare i politici, sono corrotti. Gli è detto: “Malala non è una buona mussulmana, lavora per l’America, per la CIA”. Va bene, dico io, tanto lo sostengono di qualsiasi politico. Io voglio entrare in politica”.

Sembra crederlo davvero, che lei alla fine tornerà in Pakistan e dice scherzosamente: “Ancora non ho scelto un partito, lo farò, quando sarò un po’ più vecchia, e se non ne troverò uno che mi piaccia, fonderò il mio”. Fama e visibilità non la intimidiscono. Ha appena finito di scrivere la sua autobiografia “Io sono Malala”, e non ha paura di ritorsioni, “d’altronde non si può fare una campagna politica senza mostrare il proprio volto e il proprio nome”. Dell’Occidente la colpisce tutto: “è tutto così diverso qui, e tutti sembrano pensare che l’educazione sia una cosa scontata; la scuola non è quella lampada d’Aladino che può aprire magiche porte come lo è invece per le ragazze di Swat, la città da cui vengo”.

La sua passione per l’educazione e per le riforme, entrambe ereditate dal padre, fondatore di una scuola in Pakistan, aperta anche alle ragazze, sono sicuramente genuine, anche se si descrive come una ragazza “normale”: ama lo sport ( il cricket) e la musica pop, come una qualsiasi teenager d’ogni parte del mondo. In ogni caso la sua incredibile esperienza quella davvero non può condividerla con nessun’altra ragazzina della sua età: ferita a morte, resuscitata per miracolo e diventata una star internazionale, testimonial globale di pace, cultura e fratellanza. Quasi, quasi è lei la prima a non credere alla propria storia singolare: “Quando mi parlano di Malala, la ragazza sparata dai Talebani, non penso d’essere io quella persona. A me non sembra di essere mai stata colpita. Persino la mia vita a Swat sembra una parte di storia o un film che ho visto. Le cose cambiano. Dio ci ha dato un cervello e un cuore per sapere come vivere”. Malala ha fatto di più, ha imparato a sopravvivere e a perdonare: il vero miracolo che non smetterà mai più di raccontare.