Il mantra del tabacco estero |
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La frutta e le verdure, esposte sui banchi dei mercati, sono quadri naif che colorano le città. La loro celebrità dura appena una giornata… Poi vengono inghiottiti dal grigio dell’asfalto e dello smog. Qualcuno è scomposto. Sono i cittadini che li acquistano a farlo, davanti agli occhi increduli dei loro artisti, i contadini.
Eppure, ogni mattina, loro si rimettono in marcia dalle campagne molto presto per tornare a colorare le metropoli».
Era la verità. Me ne convinsi a Sofia e quando, per puro caso, mi trovai nel mezzo del “mercato delle donne”. Lì, in quel mosaico di colori e di persone, vidi anche i fantasmi veri. Si potevano addirittura toccare perché erano pure in carne e ossa. Li raggiunsi, lasciandomi trasportare dalle loro voci calde e ammalianti. Erano timbri di donne. Ripetevano un mantra. «Tsigari, molya». «Sigarette prego». Gonne lunghe e scialli poco colorati, impacchettavano quelle zingare. A loro volta, gli scialli erano avviluppati nel fumo delle sigarette che queste donne vendevano, ma soprattutto, fumavano in continuo, proprio come il mantra che ripetevano. «Tsigari, molya ». Le mangali, com’erano chiamate dai bulgari con disprezzo, erano spettri, nascosti in evanescente nebbiolina al miasma di nicotina. Si trovavano ai margini del mercato. Erano come espulse. Parevano non esistere, proprio come le sigarette di contrabbando, che vendevano anche sotto gli occhi dei poliziotti. Eppure c’erano. Il naso aquilino appena abbozzato, un foulard indefinito al carboncino. «Non occorre altro per delineare una zingara», diceva un poeta albanese, già alla fine dell’Ottocento. Quelle donne erano disegnate nella realtà. Io mai vidi più in altro luogo icone tanto drammatiche, in grado di sintetizzare così bene in pochi secondi la sofferenza di un popolo intero. Bastava incontrare il loro sguardo. Rimasi colpito da una in particolare. Era una ragazza, nel fiore dell’età. Jenskiia Pazar era chiamato “il mercato delle donne”, perché negli anni bui della dittatura socialista, era animato da madri di famiglia. Vendevano quel che riuscivano per portare a casa qualche soldo in più. Il vero nome del suk era, però Kirkov Pazar, dal nome del dirigente comunista che lo ideò. Nessuno utilizzava questo nome. Non si faceva ai tempi di Dimitrov, figurarsi in quegli anni di democrazia seguita alla perestroika di Gorbaciov. Quello era per tutti solo “il mercato delle donne, anche se qualcuno, soprattutto tra i fumatori più incalliti, lo chiamava anche “il mercato delle zingare”. Quel giorno mi lasciai trasportare da un’atmosfera magica, fatta di spiriti, per paradosso in carne e ossa. Un po’ ricordava il Gran Bazar d’Istanbul. Jenskiia Pazar però, era più crudo, meno patinato. Era dannatamente vero. Camminavo tra i suoi banchi, ma forse i miei piedi non toccavano nemmeno terra. L’idea di trovarmi in un bazar che portava quel nome… che era come dedicato alle donne, mi beava. L’odore delle sigarette si mischiava al profumo forte e invadente delle spezie, della frutta e delle verdure balcaniche. L’aria che si respirava era davvero piccante. Fui richiamato alla realtà, da una carezza sulla spalla di una di queste mangali. Era la ragazza che avevo notato. I miei sguardi non le erano sfuggiti. «Tsigari, molya», mi disse senza troppa convinzione. In quel momento, le sue, mi parvero parole sgraziate. Più che suono mi sembrarono solo odore di trinciato forte. I suoi occhi, avvolti in una nebbia di tabacco, pungevano quanto il vento di quelle parti in inverno. Erano tunnel neri ed espressivi, capaci di nascondere chissà quali segreti. Comunicavano la pesantezza dell’intera regione, la paura di recenti guerre, ma anche dolcezza e pace, allo stesso tempo. «Tsigari, molya», sussurrò ancora. Proponeva o implorava? La invitai a prendere un caffè. Rimase sorpresa, ma poi accettò. Mi disse di chiamarsi Galia. Non riuscimmo a comunicare un gran che. La mia difficoltà ad esprimermi in bulgaro e le poche parole in romnì che conoscevo, non mi erano d’aiuto. «Non posso mica passare il tempo a ripetere Sastipè ta baxt», pensai. Trovammo in ogni caso una quadra. Galia era il diminutivo di Galina, uno dei nomi che nella Bulgaria di quei giorni andavano per la maggiore. Quel pomeriggio, ascoltai tanti frammenti di storie. Ad un chiosco, poco più in là del mercato, mangiammo banitsa al sirene, accompagnata da una bevanda che non conoscevo. Dal sapore sembrava fatta col grano, ma per la consistenza pareva di bere acqua mista a sabbia. Galia sorrise. Trovava buffo il modo in cui storcevo la bocca. Aveva denti bianchi, qua e là macchiati di nero, come certi marmi nei pavimenti delle chiese. Le mancava un canino. Mi raccontò che le sigarette che vendeva, arrivavano dalla Turchia. Le andava a prendere lei stessa, insieme ai suoi fratelli. Trasportavano le stecche in grandi ceste che si caricavano sulle spalle. Poi, per passare il confine, sosteneva di utilizzare asini intelligenti. Come arrivavano Marlboro e Camel in Turchia? A questo non mi diede risposta. Mi parve di capire che gli asini erano in grado di attraversare il confine da soli, senza manco un accompagnatore, carichi di ceste. «Noi andiamo ad aspettarli in un luogo sicuro, che è già in Bulgaria – mi disse, quando arrivano, torniamo a Sofia». è mai successo che la polizia li trova soli e carichi di bionde? «Perdiamo il carico… Le sigarette se le fumano le guardie con tante e grazie… Noi passiamo i confini puliti… certo è che ci arrabbiamo anche tanto… In quei momenti, che capitano solo una o due volte l’anno…, perdiamo un bel po’ di lavoro». Mi affermò che a Sofia andavano tantissimo le marche straniere, ma che la gente non aveva abbastanza soldi da comprare tabacco estero per canali regolari. «Non ti hanno mai presa con il carico?». «No. Per fortuna – rispose – Avessi soldi non sarebbe un gran problema. La polizia bulgara è molto corrotta… Il problema è che noi siamo poveri… Tu stesso vedi come viviamo. Non avremmo scampo. Per noi s’aprirebbero le porte del carcere». I suoi occhi tornarono a comunicare una sorta d’inquietudine, tipica di quelle terre. «Non hai mai pensato di fare altro? Non hai mai voluto cambiare vita?», le chiesi. «Ah! Voi occidentali… Siete proprio dei sognatori… E per giunta ingenui… Mi è già capitato di parlare con altri come te, fate tutti la stessa domanda… Il destino mi ha portato qui.. e qui rimango.. che altro potrei fare?... questo è un lavoro che mi piace… Che cosa faccio? Vendo piacere a buon mercato alle persone che desiderano fumare… La mia è una missione… Faccio del bene… capisci?». S’era fatta sera. Il buio si divorava quel che rimaneva dei colori di frutta e verdura. Ai confini del mercato, comparivano nuove mangali, come calate dal cielo plumbeo di quella giornata nuvolosa. S’avvicinava l’ora di punta del commercio clandestino di tabacco. Le loro voci si moltiplicavano all’infinito, quasi come se il perimetro del commercio non riuscisse a contenerle. «Tsigari, molya». Galia mi salutò e tornò alla sua missione, vendere il piacere ai fumatori. Io, m’incamminai di nuovo verso il centro della città, che distava poi appena 10 minuti a piedi. Per il turismo di massa, “il mercato delle donne” era più lontano dell’India o del Giappone. |