Viaggio nel sud del mondo
Società
Scritto da Ilaria Bucca   

Se non siete mai stati in Madagascar non potete capire quanto sia grande il cielo e per quanti chilometri si estenda il nulla, laggiù. La prima cosa a cui pensa chi lo ha visto, appena lo sente nominare è: infinito. Infiniti gli spazi, certo, ma infinita anche la distanza che separa noi, piccola Italia, e quell’isola sperduta e dimenticata a Sud del Sud del mondo.

Per arrivare ad Antananarivo ci vogliono dodici ore di volo da Parigi. Il moderno immenso aeroporto Charles de Gaulle è la vostra porta d’accesso al Sud, uscendo dalla quale vi troverete in una città che sembra si sia fermata a cent’anni fa. Il fatto che la capitale ospiti non più di 500 mila abitanti e che sorga su delle verdi colline coltivate a riso e manioca la dice lunga sullo stato di povertà del resto del Paese.
Poniamo che siate coraggiosi e vi addentriate nel Sud. Inizialmente il paesaggio è verde e montuoso, ma poi, pian piano, la vegetazione si dirada e lascia spazio ad immense praterie di lunghi fili d’erba che si estendono per chilometri. È la savana. Se la si dovesse descrivere con una parola, si userebbe “nulla”, perché nella savana non c’è nulla. Siete stanchi, perché avete fatto dodici ore di aereo e due giorni di macchina; avete caldo, perché in Italia inizia una tiepida primavera ma in Madagascar è appena finita la stagione delle piogge ed è iniziata quella torrida; ma per un attimo non ci pensate, perché vi rendete conto che anche girandovi a destra e a sinistra non vedete niente…tranne erba, arbusti bassi e, ovunque, cielo. Nuvole che corrono, grandi, piccole, bianche, grigiastre, che proiettano la loro ombra immensa su altrettanto immense aree di terreno, il sibilo del vento, che sperate che non smetta di soffiare, una, due piccole capanne… Benvenuti, siamo nel Sud!
Il Sud del Madagascar è occupato da un altopiano arido che inizia subito dopo una montagna, chiamata appunto Porta del Sud, accanto alla quale corre l’unica strada asfaltata dell’isola, la Route National. Se la percorrete tutta, partendo dalla capitale, attraversate le città di Fiananarantsua e di Ioshy, dove la strada asfaltata si interrompe. Dopodichè, potete continuare per sentieri sabbiosi, pieni di buche e impraticabili nel periodo delle piogge, che si snodano tortuosamente in mezzo alla savana.
A cinquanta chilometri (o forse sarebbe più corretto dire a quattro ore di macchina) da Ioshy, verso Sud, si trova il villaggio di Jangany. No, non è una meta esotica e no, non è bello. Se proprio volessimo fargli un complimento lo definiremmo “essenziale”, nel senso che più dello stretto necessario alla sopravvivenza non troverete, e a volte neanche quello. Dal punto di vista amministrativo è un comune in cui risiedono, fra centro abitato principale e miniscoli agglomerati circostanti, circa 4000 persone. Dal punto di vista economico, è un villaggio in via di sviluppo, o almeno così dicono i malgasci, che sono rimasti sbalorditi dall’enorme balzo in avanti fatto grazie all’arrivo dei missionari cattolici nel 1999. Grazie a loro, sono stati costruiti dei pozzi, una scuola, un ambulatorio, una scuola agricola e un piccolo generatore elettrico che fornisce elettricità per tre ore durante la sera... ed anche Jangany ha conosciuto un po’ di progresso. Un progresso che stenta ad avanzare, in realtà, a causa della persistenza di molte pratiche arretrate. Per esempio, è tradizione non mungere la vacche, in Madagascar, perché si teme che non abbiano poi abbastanza latte per i vitelli; per questo, se un neonato rimane orfano il suo destino è inevitabile, perché non ci sarà abbastanza latte per sfamarlo. Quando si scopre questa atrocità si rimane scioccati, anche se la si legge su un giornale. Pensate se vi capitasse di assistere alla visita che un medico missionario fa ad un bambino di 3 mesi che pesa 3 chili, accompagnato dalle zie che chiedono del latte in polvere perché “No, non abbiamo latte di vacca per lui!”. Prima dell’arrivo dei missionari cattolici, ai bambini non era offerto neanche l’insegnamento primario, a Jangany. La scuola statale era chiusa, a causa della mancanza di finanziamenti da parte del Governo, ma poi per fortuna è stata costruita quella cattolica, che funziona regolarmente. Purtroppo i genitori devono contribuire alle spese pagando una piccola retta, che pur essendo inferiore alla tassa statale, per molte famiglie è ugualmente insostenibile. L’agricoltura viene praticata in modo ancora molto arretrato, solo negli ultimi dieci anni è stato introdotto l’aratro rigido. Non si pratica l’irrigazione dei campi e solo raramente, grazie agli aiuti internazionali, ci si riesce a procurare dell’insetticida contro le cavallette. La situazione di Jangany è ancora peggiore di quella del resto del Madagascar, tanto che i giovani delle famiglie “più agiate” vengono mandati a studiare, se possibile, nelle grandi città, nella speranza che possano trovare lavoro lontano dal villaggio. Marc Narcisse, figlio dell’infermiere, è potuto addirittura andare a studiare nella capitale. All’Università, segue i corsi della facoltà di Economia, perché vorrebbe intraprendere il commercio di riso e di altri prodotti tipici malgasci con l’estero. Parla francese e un inglese fortemente accentato ma corretto, ed è ansioso di conoscere tutti gli stranieri che per caso, per sbaglio o per fortuna passano di lì. Se volete, andate a trovarlo: tanto, a causa della mancanza dei fondi governativi destinati alla scuola, l’Università è chiusa per sciopero molti mesi l’anno, tanto che a maggio non è ancora iniziato l’anno accademico. È un ragazzo estremamente cordiale, gentile ed intelligente e se avrete la pazienza di abituarvi al suo accento incomprensibile avrete il piacere di godere di un conversatore brillante. Attenzione, però, perché dopo pochi minuti il piacere si trasformerà in una fitta allo stomaco: sarà quello il momento in cui realizzerete che questi indigeni, vestiti strani, che parlano una lingua più onomatopeica che evoluta, che mangiano riso, sono essere razionali proprio come noi. Amano il cinema, scrivere, cantare, suonare la chitarra… solo, non hanno niente. Ma nonostante questo, sono molto contenti di poter condividere con uno straniero, infatti l’ospitalità malgascia è memorabile. Se uno turista capita a Jangany, tutte le famiglie più ricche fanno a gara per riceverlo a casa propria, offrirgli un buon pasto e trascorrere qualche ora a conversare con lui. Raccontano dei loro usi: dell’importanza che attribuiscono ai buoi e agli antenati, alla famiglia e al rispetto delle tradizioni. Alcune, le più stravaganti, sono però per fortuna cadute in disuso: molti, per esempio, non protestano anche se il futuro marito della figlia non è mai stato in prigione per furto di buoi (sintomo di valore virile) o a sottoporsi alle cure dell’infermiere e non più dello stregone. Su certe cose, però, non si transige. Il rituale dell’ospitalità, per esempio, è meticolosamente rispettato: lo straniero viene fatto accomodare alla destra del capo villaggio o del capo famiglia e mentre gli altri uomini prendono posto in cerchio, egli inizia a raccontare i motivi della sua visita e le eventuali novità Tutti prendono parola, ringraziando il nuovo venuto per la sua presenza. Poi intervengono le donne, che iniziano a preparare da mangiare in onore dell’ospite. Un’altra importante occasione di incontro è il mercato, per il quale confluiscono a Jangany tutti i venditori dei villaggi circostanti, per vendere cibo o stoffe. Il riso, la farina e lo zucchero vengono venduti a copeke, ossia barattoli di latta della capienza di circa 300 grammi. Si può acquistare la canna da zucchero, perché se ne mangia la parte bianca interna, o le frittelle di riso, o i caca pichon, pasta di pane fritta nell’olio. Nel giorno del mercato, tutti sono amici: i gendarmi con i cittadini, di solito acerrimi nemici a causa delle angherie e degli abusi che la polizia perpetua ai danni dei civili abusando della propria autorità, si aggirano festosi e completamente ubriachi di toka, un rhum molto diffuso, addirittura fra i bambini. Ma la cosa più bella, autenticamente piacevole alla vista, sono i lambauani, i teli di stoffa colorata che le donne indossano legati alla vita, come gonne, e gli uomini appoggiati alle spalle, come mantelli. Alcune sartine li cuciono con vecchie macchine da cucire, sedute per terra. La gioia e l’allegria sono quasi palpabili, nel giorno del mercato: le masse chiassose animano il villaggio per un’intera giornata, e i banchi iniziano ad essere ritirati solo quando fa buio. In poco tempo, scende il silenzio, mentre tutti si ritirano in una delle quattro osterie presenti per finire di sbronzarsi come si deve. Dopo aver attirato gli sguardi stupiti della folla festante, allibita alla vista del bianco coraggioso che si è addentrato nella savana, rimanete soli, voi e le stelle in quel cielo immenso, dove potrete ammirare la Via Lattea, la Croce del Sud e tutte le altre costellazioni che la vostra più o meno approfondita conoscenza astronomica vi permetterà di individuare. È l’immagine di tutte quelle stelle è memorabile. Seduti su un gradino, mentre i maiali grufolano poco distanti da voi, i bambini si aggirano soli per il villaggio ormai buio, le risate dalle osterie si fanno più flebili, per una frazione di secondo vi sentite un po’ malgasci anche voi. Non vi pesano più la mancanza di elettricità, il caldo soffocante, lo sporco, neanche le zanzare e le pulci, ormai. Dimenticate di essere in mezzo al niente, per un attimo, e gustate un cielo scuro come non l’avete mai visto, e stelle così numerose che non pensavate che esistessero. Ma è solo perché avete scordato, momentaneamente, badate, quante altre cose esistono che qui, a Jangany, non arriveranno mai.