La proposta della signora Gabriele Pauli, (esponente della CSU della Baviera – Partito cristiano-conservatore, alleato della CDU della cancelliera Angela Merkel), risalente a settembre del 2007, accese un’appassionato dibattito in terra tedesca e in tutta Europa.
Il matrimonio a termine legalizzato fu l’oggetto del contendere. La tesi secondo la quale dopo il settimo anno di matrimonio tradizionale si cominciasse ad entrare in un periodo di confl itto all’interno della coppia, e l’idea che i coniugi poi “tirino avanti” solamente per non aff rontare le spese legali di una separazione, fu la causa scatenante di tale assurda proposta. Tanto più che venne portata alla ribalta da una forza politica che chiamandosi “cristianoconservatrice”, mise in assoluta contraddizione l’azione politica con l’ideologia professata. La società odierna laica (o laicizzata) pressoché troppo abituata al consumismo di massa sembrò apprezzare questo tipo di proposta, che tecnicamente avrebbe indirizzato il legislatore verso la precarizzazione dell’unico istituto primario che ancora tiene in piedi la società: la famiglia. Il dibattito si accese quando venne alla ribalta un quesito importante: quale fosse la differenza tra il divorzio ed il matrimonio a termine. Enorme, poiché si sosteneva che nel divorzio si venissero a creare problemi insormontabili a causa della rottura improvvisa di un’unione che sarebbe invece dovuta durare nel tempo, creando così traumi nei fi gli, genitori ecc. Un’unione a termine invece non avrebbe traumatizzato nessuno al momento della sua interruzione. Esattamente come dire: “il contratto è scaduto, non abbiamo più bisogno di te” ad un lavoratore precario, pensando di non creare nessun problema onorando alla lettera la durata contrattuale. Ricordo qualche anno fa un amministratore delegato di un’azienda che sosteneva a “spada tratta” la destrutturazione dei diritti sanciti dalla legge 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori). Tale impiegato (a volte denominato “quadro”) anch’esso salariato e pedina di poteri forti e nascosti che controllano ormai le aziende a distanza, amava aff ermare che un lavoratore non poteva essere “sposato a vita” con la fabbrica nella quale lavorava. Quando ho saputo della sua estromissione dalla fabbrica che aveva contribuito a destrutturare, con tagli e mobilità, ho avuto un brivido di “ottenuta giustizia”. La condizione di lavoratore single precario incide pesantemente sugli assetti della vita quotidiana, poiché risulta impossibile pensare ad un futuro certo, o perlomeno raggiungibile. Il pensare ad un matrimonio rischia perciò di rimanere soltanto una chimera irraggiungibile. Quando la precarietà assale invece una coppia sposata, essa colpisce al cuore la famiglia, che se non in possesso di altri valori, tipo l’amore ed il rispetto reciproco, può decadere seduta stante. Ecco perché è assolutamente necessaria una svolta epocale a livello politico-economico, che tenga esclusivamente conto del bene comune, imponendo ad esempio sgravi fi scali alle aziende che assumano con contratti a tempo indeterminato; aumentando le tasse per le aziende che abusano della precarietà, sconfi nando così nel velato e nascosto sfruttamento; rilanciando una vera politica a favore della famiglia, favorendo le nascite smettendo di discriminare le donne. Il matrimonio a termine infatti oltre ad essere deleterio sotto tutti i punti di vista, sarebbe esclusivamente assimilabile ad un “gratta e vinci” di stampo maschilista medioevale, che oltre a non dare nessun tipo di sicurezza ad un futuro bimbo o bimba, presuppone in sé stesso la totale assenza di volontà nell’impegnarsi in un rapporto di coppia vero. L’incapacità di impegno costante è un problema molto grave che si è insinuato molto a fondo nella società del “grande fratello”. |