La virtualità del male
Società
Scritto da Fabrizio Arvat   

In questi ultimi anni i videogiochi hanno definitivamente smarrito la propria innocenza. Quel residuo di carineria iconica che ancora contraddistingue la produzione della Nintendo è solo l’ultimo residuato di un’epoca oramai perduta e trova posto solo in quella nicchia di intrattenimento per famiglie misto al fitness. Detto in termini tecnici, i giochi elettronici non sono più tali, ma si presentano sempre di più come simulazioni; in questo senso disegnano ed immergono in spazi tridimensionali piatti, dedicati esplicitamente alla trasgressione, “second lives” private deputate a compensare la desertificazione endemica delle nostre vite reali.

Nei videogiochi la censura manifesta una latitanza che ad esempio nel cinema o nella televisione non ha mai mostrato. I coin-up, cioè i videogiochi da bar, sono già nati strutturalmente come cabine chiuse e pensati per una fruizione esclusiva. L’affermarsi dei computer casalinghi e delle console ha portato ad un progressivo abbandono delle sale giochi, trasformatesi tristemente in bische, per radicarsi ben all’interno delle case private degli utenti, a partire dal multiplayer fino all’esplodere dei giochi massivi online, caratterizzati da una vera e propria messa in rete del lavoro nelle forme tipiche aziendaliste del “turbocapitalismo”, cioè accumulo, superpotenziamento e alleggerimento nei labili rapporti sociali cyber-post-moderni.
Il senso comune sostiene che nel privato “ognuno fa quello che vuole”, riflettendo un individuo ormai solo con se stesso e che non deve più fare i conti con l’occhio di un Dio onnisciente e superegoico. Al suo posto siede un “Grande Altro” sociale molto più permissivo e molto meno paternalista, ben disposto a concedere, se non a imporre al cittadino, una dimensione in cui possa sfogare le pulsioni e i desideri repressi; tutto questo idealmente, a patto che l’evidente immoralità dei suoi atti non tracimi fuori nella società e le apparenze vengano mantenute. Così l’attività videoludica ha preso una forte tendenza ad offrire esperienze in ambienti (i cosiddetti Sandbox) in cui il soggetto è emancipato dalle ferree costrizioni morali e può “giocare di ruolo” soddisfacendo pulsioni proibite nel reale. Sulla base di questa distinzione tra lo spazio privato trasgressivo e segreto e quello pubblico, manifesto e legale, si può comprendere perché la censura verso i videogiochi sia poco presente, limitandosi semplicemente a consigliare l’acquisto secondo fasce d’età. Quando la censura si muove, lo fa sempre per motivi populisti e strumentali, in quanto i politici assetati di consenso cavalcano le proteste quando qualche prodotto sposta il limite del consentito un po’ più in là dei precedenti.
Il caso del vecchio “Carmageddon” fu esemplare: si trattava di un gioco di guida che verteva principalmente sull’investimento dei pedoni. Le proteste furono immense, dando ad un prodotto decisamente mediocre una notorietà immeritata; le polemiche furono poi tacitate sostituendo le persone da investire con degli zombies. Ma già anni dopo la serie “Grand Theft Auto” (Gta) permetteva tranquillamente di scorrazzare per una città in auto, travolgendo tutto e tutti in una sorta di simulatore di criminalità furente, dove ogni efferatezza era consentita. Le proteste ci furono, ma di tono complessivamente più blando. Se Hillary Clinton scese personalmente in campo contro Gta San Andreas che era ambientato nei ghetti neri, lo fece non tanto perché il gioco fosse ultraviolento, ma perché i programmatori avevano opportunamente nascosto dei sottogiochi di tipo sessuale all’interno del programma che una piccola modifica non ufficiale aveva permesso di sbloccare. Con un tipico imperativo puritano ancora oggi permanente, i videogiochi risultano diffi cilmente permeabili alla sessualità, il che è paradossale visto che la pornografi a è disponibile ad una illimitata fruizione in rete agli utenti di qualsiasi età ed in tutte le sue più morbose sfumature.
Continua a permanere l’idea nell’immaginario collettivo che i videogiochi siano prodotti dedicati all’intrattenimento adolescenziale, quando gli anni d’oro della Playstation hanno radicalmente mutato questa situazione, espandendo il mercato verso un pubblico adulto e con disponibilità economiche molto più ampie. Emblema di questo passaggio è stata Lara Croft protagonista della serie “Tomb Raider”, vera e propria icona sexy, che ha visto il suo seno crescere di una misura ad ogni nuova versione del gioco. Cambiato il target sono cambiate anche le sue esigenze e quindi i prodotti sono diventati molto più maturi, pur dovendo mantenere una forma rispettabile per quello che la società considera lecito per un balocco giovanile.
Ma dove il mercato ha dovuto fermarsi per motivi di opportunità, il modding (modifica) amatoriale, tramite programmi di editing messi a disposizione degli utenti, ha potuto espandere in modi molto creativi i giochi in ogni direzione compresa quella erotica.
Ma altro vero e proprio tabù nei giochi è il rimando alle sostanze stupefacenti. La storia comincia in fondo anni fa, quando nei monitor dei cabinati da bar cominciò a capeggiare la scritta tipica da pubblicità-progresso: “winners don’t use drugs”. I videogiochi essendo rivolti ad un target ritenuto fertile per il consumo, furono utilizzati per veicolare una vasta campagna statunitense anti-droga. Ma dire che coloro che trionfano nella società della performance e del doping sono proprio coloro che si astengono dall’uso delle droghe performative è palesemente falso. È proprio vero il contrario: solo coloro che le usano risultano nella nostra società realmente vincenti, in quanto sono gli unici che possono reggere alla costante domanda prestazionale. Esemplare in questo è il mondo dello sport. Proprio perché i videogames rappresentano e simulano moltissimi ambiti, non si può lasciare che incrinino la falsa facciata perbenista ed ideologica che maschera un contesto di competizione totale. Una società che diventa sempre più del tecno-controllo non è spaventata tanto dalle droghe performative, che di fatto impone, ma da quelle che alterano gli stati di coscienza, che rivelano che l’interiorità non coincide affatto con quella tomba in cui siamo sempre più rinchiusi e che ci sembra un libero ed immorale paese dei balocchi privato.
Se il permissivismo che caratterizza la violenza dei videogiochi solleva spesso critiche virulente, dato che si dubita che i binomi “privato- trasgressivo” e “pubblico- legale” mantengano tra di essi effi caci porte stagne, è perché si sospetta che dietro molti gesti eff erati compiuti da giovani ci sia un venir meno di quel diaframma. Si teme, in parole povere, che i videogiochi, per la loro dimensione interattiva, condizionino ed ispirino la violenza. Esemplare è stato il caso della recentissima strage terroristica in Norvegia dove in maniera banale alcuni giornalisti hanno collegato le efferate gesta di Breivik alla missione “No Russian” del gioco “Modern Warfare 2”. In questa missione il giocatore interpreta il ruolo di un agente della Cia infi ltrato in un gruppo terroristico che dà l’assalto ad un aeroporto civile russo: qui veramente fi nisce l’ultima parvenza d’innocenza che i videogiochi potevano ancora vantare. L’obiettivo è quello dello sterminio sistematico dei civili e così comincia una strage in fondo non lontana per eff eratezza da quella compiuta sull’isoletta norvegese. Il giocatore può scegliere se partecipare o no, ma la trama lo giustifi ca in quanto deve fi ngersi un terrorista di fronte ai compagni e dall’altra in fondo è solo un gioco, ed è evidente che è molto probabile che si scelga di sparare e ci si diverta sadicamente anche a farlo. Ma alla fi ne della missione, se il giocatore è stato abbastanza abile da sfuggire alle reazione della polizia questi, raggiunto il furgone per la fuga, viene tradito dai propri compagni che avevano sempre saputo chi realmente fosse, ma anzi, sfrutteranno proprio lui per incolpare l’America dell’accaduto e scatenare una guerra. Se la missione può sollevare perplessità per la sua gratuità, essa però svolge ad arte un’operazione di disincanto molto sottile, perché con la nostra uccisione non solo viene svelata la nostra identità di agenti, ma anche simbolicamente di giocatori; impedendoci la fuga si sancisce che la presunta innocenza morale che giustifi ca il giocatore nella sua strage non regge, non c’è aff atto un distacco e non è solo un gioco, il confl itto che si scatena non è solo globale ma anche inevitabilmente interiore. Il passaggio dei videogames da giochi a simulazioni non consente, come ci viene fatto credere, la costruzione di spazi privati in cui la morale può essere sospesa poiché ciò che facciamo non è reale ma virtuale, e quindi non conta; al contrario, proprio perché sono simulazioni, invece di sgravarci dal peso della colpa della trasgressione, dicendo che nella virtualità possiamo assolverci, dovremmo imparare ad assumerci le responsabilità dei nostri atti. Non sono i videogiochi a renderci violenti, ma come uno specchio essi ci mettono di fronte al fatto che il vero Breivik non sta in un carcere in Norvegia ma è sempre rinchiuso dentro di noi. Non c’è una “virtualità del male” che preserva come un velo la nostra innocenza, perché noi non siamo innocenti e mai lo saremo, ma questa è filosofi camente anche il tema biblico del peccato: la conoscenza esige come controparte la trasgressione con tutto il suo carico confl ittuale. Questo potrà anche scandalizzare il pensiero moralistico e pacifi sta, ma in un contesto nonviolento che è un ambito di lotta, è ben noto che il vero nemico non è fuori ma dentro di sé, solo incontrandolo e concedendogli il giusto riconoscimento è possibile veramente opporsi ad esso attraverso l’integrazione.
I videogiochi hanno i loro problemi, la loro natura potenzialmente alienante e l’uso strumentale e propagandistico che gli organi militari americani ne hanno fatto a scopo di veicolare una visione falsata e gloriosa della guerra e dei suoi orrori, sono tristi esempi. Ma sono soprattutto le leggi di mercato che sembrano avversare lo sviluppo dei videogiochi come prodotti culturali confinandoli in uno stagno di superfi cialità. Persa l’originale innocenza artistica, mancano ancora il salto nella profondità oceanica della vera arte, restando in una sorta di limbo che solo raramente viene superato, soffocati come sono da pregiudizi, ma anche da un’utenza cronicamente diseducata a pretendere di più.