La classe operaia (non) va in Paradiso
Società
Scritto da Sergio Lion   

“La classe operaia va in Paradiso” è un film drammatico del 1971 diretto da Elio Petri.
Un film che entra nella fabbrica italiana degli anni settanta, per raccontare il rapporto alienato degli operai con la macchina e i tempi di produzione e allo stesso tempo esce al di fuori della fabbrica. Fuori dai cancelli per accusare sia il movimento studentesco, spesso troppo distante e ‘astratto’ dai reali problemi degli operai, che i sindacati, spesso invece collusi con i padroni con cui concertano e decidono della vita degli operai stessi, per arrivare fin dentro le case, evidenziando come l’alienazione dell’uomo-macchina continui anche nella vita di tutti giorni contaminando i rapporti personali.

Ludovico Massa, detto Lulù, è un uomo di 31 anni con due famiglie da mantenere ed è un operaio con alle spalle già 15 anni di fabbrica, due intossicazioni da vernice e un’ulcera. Sostenitore e “stakanovista” del lavoro a cottimo grazie al quale, lavorando a ritmi infernali, riesce a permettersi l’automobile e altri inutili beni di consumo, Lulù è amato dai padroni che lo utilizzano per stabilire i ritmi ottimali di produzione ma odiato dagli altri operai della fabbrica per il suo eccessivo servilismo.
Tuttavia, non è contento della sua situazione, i ritmi di lavoro sono talmente sfiancanti che arrivato a casa riesce solo a mangiare e ad annichilirsi davanti alla televisione, nessuna vita sociale, nessun dialogo con i propri cari, non riesce neppure più ad avere rapporti con la compagna. La sua vita continua in questa totale alienazione, che lo porta a ignorare gli slogan urlati e scritti dagli studenti fuori dai cancelli, finché un giorno ha un incidente sul lavoro e perde un dito.
Improvvisamente Lulù si sveglia dal sonno dell’alienazione per ritrovarsi nell’incubo della sua misera vita, di cui finalmente prende coscienza; così si schiera contro il ricatto del lavoro a cottimo e aderisce alle istanze radicali degli studenti e di alcuni operai della fabbrica in contrapposizione alle posizioni più moderate dei sindacati. In breve tempo il fermento nella fabbrica aumenta e si arriva all’inevitabile scontro con la polizia. Il risultato di questo cambiamento è drammatico: Lulù viene abbandonato dalla compagna, licenziato in tronco dalla fabbrica e contemporaneamente abbandonato dagli studenti, che sostengono che il suo è un caso individuale e non di ‘classe’, ed emarginato anche dagli operai che non prendono nessun provvedimento contro il suo licenziamento. Cerca, inutilmente, conforto nelle visite all’anziano Militina, un ex compagno di fabbrica costretto a finire i suoi giorni in manicomio; ma l’unica cosa che Lulù ottiene da queste visite è la scoperta che la sua alienazione si sta trasformando in pazzia. Ormai quando tutto sembra perduto i suoi compagni, grazie al sindacato, ottengono la sua reintroduzione in fabbrica alla catena di montaggio dove Lulù urlando, per superare il rumore assordante, di nuovo in balia dei ritmi frenetici della produzione, racconta ai compagni di un muro e di una fitta nebbia oltre i quali c’è il paradiso della classe operaia.
Il film suscitò alla sua uscita una forte ondata di polemica. In occasione della sua presentazione in anteprima, avvenuta alla Mostra del Cinema Libero di Porretta Terme il regista Jean-Marie Straub prese il microfono in pubblico e dichiarò che tutte le copie dovevano essere bruciate seduta stante. (fonte http://it.wikipedia.org/wiki/La_ classe_operaia_va_in_paradiso)

La trama di questo film dell’epoca in cui successivamente venne approvato in Parlamento il famoso “Statuto dei Lavoratori” (che è anche chiamato “Legge 300”) rispecchia per certi versi le vicende tragicomiche di Fantozzi nei suoi lungometraggi. Fantozzi rappresenta il ragioniere salariato e mobbizzato (mobbing ndr). Purtroppo la filmografia che racconta le fabbriche, la produzione dei beni di consumo ed anche il settore pubblico ed impiegatizio, di fatto non esiste più. I centri di produzione filmografica vanno infatti di pari passo con i bisogni di mercato, quindi nel periodo attuale si potrà trovare qualche telefilm o fiction nelle TV commerciali che inneggi invece alla “bellezza del lavoro precario e sottopagato”.
La mia esperienza personale da operaio spazia in numerose fabbriche e in numerose produzioni diversificate nell’organizzazione interna, nella tipologia di prodotti e nell’impiego di varie contrattazioni nazionali. Ad esempio nel settore metalmeccanico: assemblaggio in linea di montaggio di 15-20 componenti diversi, su di sei linee robotiche che lavorano in simmetria (cioè se si ferma il primo, si ferma tutto) con incluso il controllo visivo di ogni componente prima della lavorazione e saldatura. Rispettivo scarico e controllo dei pezzi saldati a fine lavorazione, imballaggio nei rispettivi cassoni. Tempo stimato per la saldatura di un pezzo, circa un minuto, molto spesso anche rilevato dal cronometrista, come nel film. Andare avanti ed indietro per 8 ore lavorative a caricare e scaricare pezzi, schiacciando un’infinità di volte gli stessi bottoni delle stesse pulsantiere, che tra l’altro sono a volte incomprensibili pure agli ingegneri o capetti, è a dir poco una silenziosa tortura.
A volte una delle linee robotiche si ferma, e bisogna intervenire ripristinando il tutto: quando questo capita, è necessario segnare il tempo di “fermo macchina” sull’apposita scheda lavorazione e farla necessariamente firmare al capo turno, o al tecnico in caso di guasto più complesso. Se non si è “giustificati” su di un fermo macchina si può rischiare di essere chiamati in ufficio per le dovute spiegazioni. Per soli cinque minuti venni ripreso il giorno successivo. Il capo turno, con fare da “kapò” si avvicinò testa china sul block notes e senza alzarla mi chiese come mai non avessi prodotto i cinque pezzi mancanti. Ho visto con i miei occhi altri capi turno che insultavano gridando alcuni colleghi – naturalmente i più miti – per questo motivo. Le due pause di 15 minuti venivano effettuate da tutto il personale esclusivamente al suono della sirena; al di fuori di tale orario non era possibile allontanarsi senza autorizzazione. Vigeva l’obbligo di chiamare il capo turno per qualsiasi cosa, anche se il collega avesse scoreggiato una volta di troppo.
Altro esempio nello stesso settore, la fonderia. Tralasciando il luogo di ubicazione della stessa, squallido ed altamente inospitale, che bastava già ad ulcerare gli stomaci, i rispettivi reparti si presentavano con un livello di rumore assordante, una luce artificiale insufficiente per garantire una corretta visione soprattutto nelle ore notturne. Letteralmente nebbia ovunque, dovuta al fatto che le cappe di aspirazione dei fumi nelle presse non funzionavano a dovere. (Mi vennero subito in mente le immagini viste nei telegiornali il 6 dicembre del 2007 quando la fonderia ormai tristemente famosa Thyssenkrupp di Torino esplose, causando la morte di 7 operai). Carrelli elevatori passavano vicinissimi alle postazioni di lavoro con il loro carico di alluminio fuso; i rischi attinenti questo tipo di lavorazione sono: esplosione (se ad esempio dell’acqua fosse entrata in contatto con l’alluminio fuso), schiacciamento da carichi pendenti sulle gru (o paranchi), ulteriore pericolo di schiacciamento durante la lavorazione alle presse, rischio di gravi ustioni per via del metallo fuso a 700 gradi proprio vicino alle postazioni. Alcuni colleghi per sbloccare gli ingranaggi, avvicinavano le mani anche a pochi centimetri dal metallo fuso. Altri mi ricordavano sempre che per qualsiasi problema avrei dovuto fare da solo senza chiamare assolutamente il capo turno, in quanto si sarebbe “arrabbiato”. Ho visto con i miei occhi l’addetto ai forni operare sugli stessi dopo essersi fatto alzare – cosa vietatissima – da terra con il carrello elevatore: la scena si può descrivere come “un forno crematorio” e l’operaio che toglie la cenere con una specie di rastrello a due passi dall’inferno di fuoco. Le pause venivano effettuate di corsa, solo per prendere un caffè o andare al bagno; poi di nuovo al lavoro per non scontentare il capo. Capo che al mattino, al momento di assegnare il lavoro agli operai, con il suo cappellino tipo “stupida” indicava come un vigile sub-urbano, e senza nemmeno aprire bocca sembrava dicesse: tu lì, tu là, tu qua. Mi veniva in mente quello che mi raccontava mio padre riguardo la vita di fabbrica ai suoi tempi e mi sembrava di rivivere tutto per filo e per segno come in un film. I carrelli elevatori alimentati diesel transitavano tranquillamente ed impunemente nei reparti, aggiungendo il loro fumo a quello della pressofusione. I delegati sindacali inerti ed inutili sotto l’aspetto della sicurezza completavano il quadro.
Concludendo, nel periodo nel quale viviamo, la classe operaia ha vissuto esclusivamente di rendita per quello che concerne i diritti sul posto di lavoro. Negli anni del film “la classe operaia va in Paradiso” i lavoratori conquistarono la legge 300, con al suo cardine il famoso articolo 18. Per decenni questo ordinamento giuridico è sembrato definitivamente acquisito, quindi nessuno si è preoccupato più di proteggere quello che i predecessori avevano conquistato democraticamente, in un ambiente molte volte ostile alla democrazia delegata (molti operai del Lingotto negli anni ’70 venivano licenziati solo per essere tesserati alla CGIL), scioperando e manifestando. Esponenti di primo piano nel jet set della politica-teatrino considerano i diritti sul posto di lavoro esclusivamente come un costo che frena la (loro) crescita.
Consiglio dunque la visione di questo film, che rende pienamente l’idea di cosa vuol dire lavorare senza diritti. Per un futuro sostenibile, ma soprattutto per far sì che finalmente la classe operaia vada veramente in Paradiso, “traslocando” finalmente dal suo Limbo impantanato.

Mobbing = attacco frontale – nel vero senso del termine, anche se dissimulato nell’omertà – dei superiori nei confronti di un, o una, dipendente (anche con l’ausilio di suoi colleghi compiacenti), preso/a di mira in quanto persona scomoda, ma anche per sole futilità, con l’intento di screditarlo/a ed isolarlo/a, relegandolo/a a mansioni inferiori oppure isolandolo/a completamente per poi ottenere un licenziamento volontario.