Vi fu un tempo, che sembra perso nel mito, in cui i marinai con i loro capitani coraggiosi sfidavano l’atlantico sulle grandi navi passeggeri che prendevano il nome di transatlantici. Si trattava di microcosmi classisti che, in piena Belle Epoque, traducevano la stratificazione sociale di un mondo novecentesco diretto verso le Americhe nell’aurora di un futuro glorioso e pieno di promesse.
Ma sono soprattutto le loro tragedie, come quella epocale del Titanic, o quella della sfortunata Andrea Doria, che hanno riempito l’immaginario collettivo rivelando come mera illusione la credenza che la storia umana sia un viaggio sicuro su una nave inaffondabile mossa dal vapore, come dal soffio di un Dio provvidente. Ma se si prendono questi naufragi e li si associa a quello della Costa Concordia considerando quest’ultimo come una tarda riedizione un po’ farsesca di tali eventi, si commette una svista madornale. Questo perché i transatlantici trasportavano i migranti verso un futuro e una nuova terra, mentre le moderne navi da crociera sono fatte solo per sguazzare nelle paludi del presente e offrire una momentanea e futile fuga dal suo fetore. Una cosa è il viaggio, ma altra, totalmente altra, è una vacanza come simulazione di un viaggio. Sconcerta scoprire che anche la simulazione presenta i suoi rischi e può collidere con la realtà, come la motonave ha fatto con gli scogli dell’isola del Giglio. A responsabile del disastro è stata eletta, come capro espiatorio, la figura tragicomica del comandante Schettino, in effetti esempio perfetto dell’Italia berlusconiana, dove gli intrattenitori della navi da crociera si improvvisano grandi timonieri, rassicurando i passeggeri mentre la nave affonda e abbandonandoli vigliaccamente al loro destino quando il disastro si palesa. Incapace di liberarsi del cavaliere, gli italiani necessitano di una figura simbolica su cui scaricare le colpe del naufragio della nazione. Così si immagina il comandante che si intrattiene con delle ragazze mentre la nave dirige a tutta forza verso gli scogli; il gioco viene facilissimo, anche se queste interpretazioni non colgono l’altro aspetto determinante del berlusconismo: ovvero la sfida di portare la nave e la nazione verso il rischio estremo dell’ordalìa, perché ci si sente uomini del destino, immersi nella grazia dell’unzione sacrale. Come Schettino, Berlusconi teneva il timone cercando il pericolo, aggirando le leggi in un delirio sbruffone, conducendo la navigazione e la politica come sport estremi, interscambiando il pubblico con la proprietà privata, ma non accettando mai fino in fondo il fardello abissale della responsabilità che il comando esige. E poi fuggire per salvare se stessi (e le aziende) lasciando la nave per abbandonarla al commissariamento autoritario in un sordido "inchino". Non c’è nulla di nuovo sotto il sole di questo ben misero paese che ha conosciuto re e duci da operetta, di cui la versione contemporanea sono la farsa della farsa. Il problema è tutto un altro ed è molto più virulento e non basta il legittimo cordoglio per i morti e il trauma dei sopravvissuti a nasconderlo. Il fatto è che queste crociere sono tristi derive nell’immoralità, somigliano tanto ad una versione annacquata del Decameron, un’orgetta low cost del cattivo gusto e del lusso sfrenato, in cui l’umanità globalizzata, mentre la tempesta perfetta infuria, si abbandona a festini deliranti e trenini demenziali nell’attesa rinunciataria e consapevole della propria stessa fine. E quando questa squarcia lo scafo, sposta il baricentro delle cose, ferma la musica e inonda i saloni, il panico prende alla gola, mentre si scopre che non ci sono né salvagenti né scialuppe per tutti. Non è ironico questo?! Eppure questa umanità piccola e meschina ha molti più diritti di quell’altra che nelle stesse acque, stipata su carrette del mare, svanisce nel sarcofago che è diventato il Mediterraneo perché non ha il biglietto di soggiorno per questa nave dei folli chiamata Europa. Nel gioco dei sommersi e dei salvati si usano due pesi e due misure. Ma la legge del mare è sempre per tradizione stata un’altra: come esso è impietoso e non fa distinzioni tra bianchi e neri, ricchi o poveri. Così è d’uso che nel salvataggio la giustizia s’imponga nel dovere di non fare differenze. Il mare è terribile e sconfinato e senza solidarietà non c’è terra né approdo per nessuno, questa è la grande lezione della vita marinara. Ma come potrebbe saperlo gente che vive perennemente in classe turistica, nel suo grande albergo galleggiante progettato per dimenticare di stare su una barchetta che solca il mistero e la precarietà? Per alcuni il mondo è solo un paesaggio che scorre, mentre si sorseggia un cocktail in piscina, tra nuguli di servi filippini che ripuliscono gli avanzi e in cui l’unico vero rischio è la roulette russa del casinò. Sconcerta non poco che questa sia diventata per moltissimi la principale aspirazione, cioè quella di gozzovigliare su queste cloache su scafo, che come nelle pubblicità che appestano le tv, si lotti nel proprio ascensore sociale per trovarvi posto e disperati si pianga al ritorno, facendo il bagno nelle lacrime di una vita vuota e insensata. Poco importa che sul fianco giaccia non solo la Concordia, ma l’Unione Europea colpita a morte dai siluri dell’alta finanza come il vecchio Lusitania. Ci resta ormai solo la speranza che qualcuno costruisca di nuovo vele e zattere, e con queste si tenti l’impresa di rimorchiare il relitto fuori dalle secche, trainarlo verso il mare aperto e nella notte più nera, senza sponde e senza fari, si riesca ancora a contemplare ciò che solo l’oscurità lascia vedere, le costellazioni e la stella polare di una nuova rotta. Perché oggi più che mai la bussola gira a vuoto, segno che siamo stati presi dal terrore supremo di ogni navigante, il gorgo, e in traiettorie sempre più strette ci avvitiamo risucchiati dalla corrente verso il fondo. Affondiamo in un tinozza, poiché non basta l’incompetenza di pavidi comandanti ed i loro equipaggi compiacenti a giustificare il naufragio. In un mondo dove riesplodono i miserabili nazionalismi è la grande frontiera dell’utopia che giace esanime perché i passeggeri non hanno più sogni con cui gonfiare le vele dell’avvenire, ma solo mete effimere a cui anelare. |