La trappola dell’identità
Società
Scritto da Sergio Abis   

La genetica ha sconfitto il concetto di razza, ma il senso comune le ha solo cambiato nome.[…] non c’è razzizzazione senza la creazione di stereotipi; non ci sono stereotipi che non siano volti in chiave di razzizzazione. (F. Germinaro – Argomenti per lo sterminio – Einaudi)

Sei italiano?
È una domanda che mi è stata rivolta molte volte, all’estero. Ho sempre risposto di sì, naturalmente, ironizzando tuttavia sulla mia appartenenza a una minoranza etnica. Se lo si domandasse ai miei amici d’infanzia che hanno deciso di restare in Sardegna, forse la risposta sarebbe: “Italiano? Sì, però sono prima di tutto sardo!” perché l’isola è un piccolo continente che spinge a sentirsi partecipi di una realtà circoscritta dotata, prima di ogni altra cosa, di un inequivocabile confine geografico che spinge alla formazione di un qualcosa che taluni chiamano ‘carattere nazionale’ ed altri ‘identità nazionale’ oppure, con un termine che ultimamente ho trovato citato con sempre maggior frequenza, sardità.
In effetti, le due categorie – carattere e identità – si riferiscono a significati differenti e tuttavia, senza scendere in dettagli da specialisti, hanno in comune una particolarità stravagante: non sono definibili con precisione e, quando ci si sforza di farlo, si avvolgono su se stesse generando un riferimento circolare oppure, il che è assai peggio, un’accozzaglia disordinata di stereotipi.
A parte i tecnicismi, è sufficiente una piccola dose di buonsenso per realizzare quanto la rincorsa ad una definizione del concetto di appartenenza etnica sia in realtà sfuggente. Se all’estero mi definiscono italiano e in Italia sardo, posso sperare di interrompere il processo di moltiplicazione (o frammentazione) della mia identità una volta sceso dal traghetto che mi porta da Genova a Porto Torres? Posso essere sicuro che una volta approdato sarò semplicemente un sardo poiché condivido l’identità sarda (o sardità) con coloro che là abitano e che ho lasciato tanti decenni addietro?
Certamente no. L’apparente unitarietà, l’esistenza di un popolo sardo, di un’etnia sarda, si frammenta immediatamente spostandomi sull’isola, un microcosmo in cui coesistono almeno cinque lingue differenti (tabarchino, catalano, gallurese, logudorese e campidanese) di cui solo tre (le ultime) ragionevolmente assimilabili a varianti del medesimo idioma, nonché un ventaglio differenziato di usi e costumi, modi di concepire la realtà, diversissimi tra loro, tanto da concludere, senza forzature, come un nuorese e un cagliaritano siano differenti (almeno) tanto quanto un milanese e un romano (italiani entrambi?). Sarà pur vero che incontrando un nuorese a Milano lo considererò sardo a tutti gli effetti, ma incrociandolo a Cagliari per me sarebbe un nuorese, lontano da me quanto un valdostano per un genovese!
Non sfuggirà che l’uso della parola lontano (o vicino) rimanda alla difficoltà principale del definire l’etnicità: la mancanza di un metro di paragone certo. Non appena si affronti il problema di spiegare cosa sia, si cade necessariamente nell’arbitrio, poiché lontano è concetto del tutto soggettivo, restio ad una quantificazione.
Cosa resta, allora, della pretesa etnicità? Cosa sarebbe l’italianità che devo spiegare all’estero, la sardità che devo spiegare in Italia e il mio essere cagliaritano (ma prima campidanese) in Sardegna?
Restano gli stereotipi. All’estero gli italiani sono scansafatiche ed amanti del dolce far niente. In Italia i sardi sono i pastori che si accoppiano con le pecore (come ha provato ad ironizzare recentemente Paolo Villaggio, suscitando un piccolo guazzabuglio nell’isola). A Nuoro i cagliaritani non sono sardi o, ma è equivalente, non sono certamente nuoresi!
Ciò rimanda necessariamente ad una considerazione per certi versi ovvia: se le razze non esistono, come ha certificato la genetica, come è stato possibile l’olocausto? Su quali basi è stata costruita una differenza razziale priva della possibilità di qualunque riscontro oggettivo?
Esattamente sulle stesse che contribuiscono alla persistenza dell’equivoco dell’identità etnica: gli stereotipi. Gli stessi che oggi fanno parlare del ‘carattere deteriore’ dei Rom o delle doti civili dei ‘padani’, passando attraverso la ‘manifesta inferiorità’ degli africani, il ‘carattere infido’ dei levantini, la ‘doppiezza’ dei cinesi, l’’ingenuità’ dei giapponesi, la ‘faciloneria’ degli statunitensi, la propensione dei sardi alla zoofilia. Nella prima metà del ’900, la razza ebrea era oggetto dei medesimi stereotipi, purtroppo sostenuti da una pseudoscienza antropologica capace di conferire loro una patina di pretesa oggettività e fu il loro uso distorto che mandò nei forni crematori gli ebrei, i Rom (purtroppo dimenticati dalla storia) assieme agli omosessuali e ai sofferenti di malattie mentali.
Ma io, se rifletto su me stesso, mi definisco prima di tutto sardo? Non saprei: sono basso, bianco, miope, ateo, sardo per nascita, piemontese per domicilio (attuale), italiano per passaporto, europeo per diritto d’euro, laureato, amante del barbaresco, lettore compulsivo, rispettoso dei diritti umani e un miliardo di altre cose che definiscono, tutte assieme, la mia identità personale, ciò che sono, un insieme di caratteristiche unico e non replicabile quanto poco negoziabile. Perché dovrei considerarmi prima di tutto sardo? O in alternativa: posso definire un insieme di caratteristiche che certifichi la mia appartenenza ad un preciso gruppo etnico (posto che abbia senso il termine) o di qualunque altro tipo?
Sì, è possibile: faccio parte del genere umano e condivido con esso i diritti e doveri dovuti a qualunque appartenente alla specie. Tutto il resto è uno stereotipo elaborato con l’unico scopo di tirare una linea di demarcazione tra un noi e un loro, con l’ovvia conseguenza che il noi definisce caratteristiche positive e il loro caratteristiche negative.
Appena mezzo secolo fa, questa linea di demarcazione ha contribuito alla shoah: cerchiamo di far sì che non accada anche oggi accettando che il concetto di razza, cacciato dalla porta della scienza, rientri dalla finestra dei luoghi comuni.