Inchiodato sulle pendici del Caucaso, Prometeo giace vivo ma condannato per la sua colpa, reo di aver fatto dono agli uomini del fuoco rubandolo agli Dei. Un’aquila impietosa gli divora ogni giorno il fegato che puntualmente ricresce, simbolo di una circolarità tragica ed irrisolvibile a cui l’umanità è condannata ma da cui non può divincolarsi. La differenza è che tra gli Dei e gli uomini sono questi ultimi i soli a desiderare e cospirare contro la Necessità perché questi, sentendone più stringenti le sue catene, sognano più di ogni altro essere di spezzarle ed innalzarsi verso una libertà che sta persino al di là degli Dei stessi.
Il “Frankenstein” di Mary Shelley è un’opera letteraria il cui immane successo nella forma delle sue innumerevoli rappresentazioni cinematografiche ha finito per oscurare il romanzo stesso, tant’è che il sottotitolo “o il moderno Prometeo” è quasi stato rimosso. Divenuto un’icona del gotico grazie alla pur straordinaria prova di Boris Karlof ed al suo make-up indimenticabile, la creatura ha persino finito per acquisire quel nome che il suo creatore ha sempre rifiutato di dargli; il “mostro di Frankenstein” è diventato semplicemente Frankenstein. Questo appellativo è divenuto simbolo di ogni anormalità eccedente, di qualunque handicap, di ogni forza incontrollata mossa da una demenza proverbiale, che uno scienziato pazzo libera dalla segregazione della tomba e del manicomio dove dovrebbe stare. L’accozzaglia di membra cadaveriche, cucite assieme all’insegna del gigantismo e dell’abnormità, diverrà il giudizio di condanna per ogni tentativo di comporre parti eterogenee come idee, società, prodotti ma soprattutto rivoluzioni ed in particolare quella francese imputata per i suoi risvolti violenti, di essere un corpo mostruoso ma senz’anima. Si è perduto così il mostro senza nome, tutt’altro che demente, ma dotato d’intelligenza acuta, di sentimenti purissimi nutriti dalla lettura dei grandi classici romantici, che ha imparato a parlare e che cerca in tutti i modi l’affetto degli altri, lottando contro la prigione delle proprie sembianze ben più mostruose di quelle comunemente note e che ne decreteranno invece senza appello l’esclusione dalla comunità umana, intollerante di fronte ad ogni apparente diversità. Così l’odio e la vendetta si impadroniranno della creatura, dirette soprattutto verso il proprio creatore, nel tentativo di costringerlo a dargli una compagna, che dissipi la sua abissale solitudine per fuggire con lei nel gelo dei ghiacci antartici lontano dagli umani che lo disprezzano; ma anche questa speranza verrà tradita. Solo la sanguinosa vendetta resterà come compensazione al mostro, che estirperà i cari del suo creatore fino a prendersi la vita della novella sposa, la prima notte delle sue nozze. Si è allo stesso tempo perduto il dramma di Victor Frankenstein, che la vulgata ha confinato nella figura dello scienziato pazzo, invasato certo da un sogno prometeico, ma il cui fine è quello che la nostra civiltà scientifica considera il più nobile, dominare la vita col sapere per estirpare da essa il suo lato oscuro, ovvero la morte e la sofferenza. Il giovane Victor, geniale studente di quella nascente scienza medica, compie quello che è la pratica più comune in ambito scientifico, cioè un esperimento. Il suo straordinario successo coglie Victor completamente impreparato, in quanto non si è mai posto il problema di ciò che avrebbe fatto della creatura se avesse veramente preso vita. Non sono solo le sue mostruose sembianze, che egli coglie solo quando si animano, ma è sopratutto la responsabilità della paternità che egli rifiuta in toto, non prendendo mai una chiara decisione sul destino della creatura. Egli semplicemente la rimuove dalla coscienza fuggendo e rinnegando persino a se stesso la sua esistenza. E dal rimosso la creatura tornerà come una dolorosa nemesi chiedendo conto della sua nascita, come novello Adamo chiederà il conforto di una compagna, che lo scienziato preso dalla compassione acconsentirà inizialmente a creare; ma poi, preda del timore che la creatura si riproduca, distruggerà la controparte femminile prima di infonderle la vita scatenando la furia vendicativa del mostro. Comincia così un’inversione delle parti che vedrà lo scienziato all’inseguimento furioso della creatura fino nel cuore dei ghiacci polari, dove ormai stremato verrà soccorso da una nave impegnata in una spedizione artica, e lì vi morirà dopo aver raccontato al comandante la sua strabiliante storia. La creatura morsa dal tormento della colpa per i suoi omicidi ne reclamerà il cadavere, e si allontanerà con esso per darsi anch’essa la morte come liberazione dalla sua insopportabile esistenza. Nella forma epistolare del racconto viene giocata in parallelo l’impresa avventurosa del comandante della nave impegnato testardamente nel tentativo di raggiungere il polo nord e quello di Frankenstein nel tentativo di creare la vita. Sarà il racconto del disastro di questo a convincere il comandante ad abbandonare la sua avventura. Il tema centrale quindi diventa il limite e la presa di coscienza che il superarlo in nome di un tentativo di imitare Dio comporta rischi immani e sicuri disastri. L’opera traghetta così il mito del golem della tradizione ebraica, cioè l’automa di argilla a cui viene profusa la vita per fare da ponte a quello della vita artificiale e dell’androide, tematiche attualissime e piene di problematiche e inquietudini che ne mettono in ombra lo sviluppo futuro. Ma può anche essere letta come un’articolata tesi proto-femminista in quanto, innegabilmente, denuncia l’aspetto fallocratico e maschilista di una scienza disposta a violentare la natura, disprezzare il corpo e togliere al cadavere ogni sacralità, allo scopo di generare la vita facendo a meno della dimensione materna, come rivalsa dell’eterna invidia che il maschio prova nei confronti del grembo femminile come generatore di vita. |