Considerazioni sul federalismo
Società
Scritto da Mario Brusasco   

 

Lo confesso: sono antifederalista per l’Italia
dei tempi nostri. So di essere un voce
fuori dal coro. Da oltre 20 anni tutti, ma
proprio tutti, si sono dichiarati federalisti: politici,
giornalisti, affaristi collusi con la politica,
avendone visto gli indubbi vantaggi, professori
universitari, consulenti vari, ecc . Insomma
tutti coloro che hanno sciaguratamente avuto
voce in capitolo in Italia negli ultimi decenni
e con perversa fantasia ne hanno determinato
l’attuale sfacelo. Sfacelo economico, sociale
ed etico.
Il federalismo in Italia
ha assunto la forma di
iperregionalismo e cioè:
la disgregazione dello Stato
unitario risorgimentale
si è perpetrata assegnando
man mano poteri ed autonomie
sempre più accentuate alle
regioni.
In presenza delle province,
enti antichi e relativamente
omogenei dal punto di vista economico,
ambientale e sociale,
l’introduzione delle amministrazioni
regionali è stato uno dei maggiori errori
compiuti nel dopoguerra. Inutile ricordare che
lo sperpero e l’aumento di corruzione che si è
generato, è andato a danno del paese intero e lo
spaventoso debito pubblico di conseguenza accumulato,
costringe da diversi anni a tagli nei servizi
sociali, ha favorito la disoccupazione, lo sfruttamento
e tutto quanto di problematico esiste ai
giorni nostri e che sta sotto gli occhi di tutti.
Vorrei fare un breve excursus storico sulla genesi
del provvedimento legislativo, ricordando
che la situazione è molto peggiorata nell’ultimo
ventennio, sulla spinta nefasta della Lega e della
scandalosa e ignobile accondiscendenza generale.
La legge n. 108 del 17 febbraio 1968 (“Norme
per la elezione dei Consigli regionali delle
Regioni a statuto normale” - G.U. n°61 del
6/3/68) istituì e introdusse nel nostro ordinamento
n°15 Regioni a statuto ordinario. Ci fu
il voto favorevole dei partiti allora di governo
(DC, PSI, PRI e PSDI), delle opposizioni di
sinistra (PCI e PSIUP), e il voto contrario di
PLI, PDIUM ed MSI. Preesistevano 5 regioni
a statuto speciale (il Friuli-Venezia Giulia dal
1963). Le prime elezioni si tennero nel 1970 e
da allora un totale di ben 20 regioni ha iniziato
il suo iter amministrativo e legislativo. Dal
1970 dunque, oltre ai Comuni e alle Province,
un’altra istituzione intermedia è andata ad accrescere
l’apparato burocratico dello Stato.
Ricordo che negli anni dal 1965 al 1970
il rapporto debito pubblico/PIL si collocava
intorno al 48-50%, valore che, per
inciso, oggi sarebbe miracoloso e ci collocherebbe
tra i Paesi più solidi e stabili nel
mondo, in termini di finanza pubblica. è
il caso di ricordare che solo pochi
anni prima, a gennaio 1960,
il “Financial Times” di
Londra assegnando,
come tutti gli anni, i
premi Oscar della Finanza
scelse proprio la lira
italiana, per la sua stabilità e
per l’acquisita forza dell’economia
retrostante.
Ora, non si può ritenere che la
sola introduzione di 15 amministrazioni regionali
abbia determinato il progredire del rapporto
debito /pil fino all’attuale 120%; tuttavia il collegamento
appare evidente se solo si considera
l’aggravio di spesa che tali enti hanno determinato
in pochi decenni. Di certo nel frattempo
abbiamo assistito e anche pagato gli errori del
’68, i non pochi effetti negativi di normative sul
lavoro che hanno indebolito il sistema produttivo,
il declino clamoroso degli aspetti educativi e
formativi della scuola, ecc.
La riprova del danno subito sta comunque nel
fatto che se, nei primi 20 anni del dopoguerra, il
Paese è cresciuto economicamente in modo vertiginoso,
mantenendo nel contempo stabili moneta
e debito pubblico in assenza delle amministrazioni
regionali, ciò significa con tutta evidenza
che di tale innovazione non c’era bisogno.
Si doveva dunque non solo non istituire le
regioni a statuto ordinario, ma addirittura limitare
o ridurre poteri e costi di quelle a statuto
speciale. Quando poi in anni più recenti tale regionalismo
è diventato di fatto la forma con cui
istanze federaliste hanno preso gradatamente il
sopravvento rispetto allo stato unitario risorgimentale,
oltre ai danni in termini di finanza
pubblica si sono aggiunti quelli disgregativi del
sentimento di unità nazionale, quelli di costose
sovrapposizioni burocratiche e di accondiscendenza
a localismi di ogni genere.
“Il bene primario di un popolo è la sua dignità”,
è una tra le citazione più note di Cavour:
non può non essere intesa nel senso dell’unità
nazionale e del comune senso di coesione per
un fine comune, cementato da unità di intenti,
non certamente di rivendicazioni autonomiste
secondo le quali l’unità nazionale è un disvalore
e costituisce un ostacolo ai presunti benefici
della libertà dallo stato oppressore.
Chi condivide con me l’interpretazione negativa
del federalismo-iperregionalismo non può
non valutare quella che doveva essere invece la
politica da seguire su questi temi e cioè procedere,
al contrario, ad una diminuzione delle prerogative
delle regioni a statuto speciale, che nei
decenni si sono dimostrate fonte di ingiustizia e
disparità a livello nazionale, di centri di potere e
di spesa spesso abnormi e di difficile controllo,
con accentuazioni più marcate in parti diverse
d’Italia. Tali considerazioni sono state più volte
espresse nelle relazioni annuali della Corte dei
Conti, ma purtroppo diffusamente inascoltate.
Un grande e rinnovato spirito di coesione
nazionale può favorire il superamento della
grave crisi in atto, con la riduzione di numerosi
centri di spesa improduttiva, aggravato peraltro
dagli accresciuti costi di una pubblica amministrazione
esuberante e farraginosa. Anche così
si determinano i prerequisiti per un visione globale
ma solidale del pianeta.
è bene chiarire che quanto ho affermato si riferisce
all’Italia, mentre la creazione di un’ entita
più omogenea a livello europeo, potrebbe giovare
alla forza del nostro continente, per una più marcata
capacità competitiva sullo scenario mondiale
e soprattutto una maggiore possibilità di aiuto ai
Paesi terzi bisognosi di cooperazione e coesione,
in un’ottica di nazione umana universale.
Lo confesso: sono antifederalista per l’Italiadei tempi nostri. So di essere un vocefuori dal coro. Da oltre 20 anni tutti, maproprio tutti, si sono dichiarati federalisti: politici,giornalisti, affaristi collusi con la politica,avendone visto gli indubbi vantaggi, professoriuniversitari, consulenti vari, ecc . Insommatutti coloro che hanno sciaguratamente avutovoce in capitolo in Italia negli ultimi decennie con perversa fantasia ne hanno determinatol’attuale sfacelo.  Sfacelo economico, socialeed etico.Il federalismo in Italiaha assunto la forma diiperregionalismo e cioè:la disgregazione dello Statounitario risorgimentalesi è perpetrata assegnandoman mano poteri ed autonomiesempre più accentuate alleregioni.In presenza delle province,enti antichi e relativamenteomogenei dal punto di vista economico,ambientale e sociale,l’introduzione delle amministrazioniregionali è stato uno dei maggiori erroricompiuti nel dopoguerra. Inutile ricordare chelo sperpero e l’aumento di corruzione che si ègenerato, è andato a danno del paese intero e lospaventoso debito pubblico di conseguenza accumulato ,costringe da diversi anni a tagli nei servizisociali, ha favorito la disoccupazione, lo sfruttamentoe tutto quanto di problematico esiste aigiorni nostri e che sta sotto gli occhi di tutti.Vorrei fare un breve excursus storico sulla genesidel provvedimento legislativo, ricordandoche la situazione è molto peggiorata nell’ultimoventennio, sulla spinta nefasta della Lega e dellascandalosa e ignobile accondiscendenza generale.La legge n. 108 del 17 febbraio 1968 (“Normeper la elezione dei Consigli regionali delleRegioni a statuto normale” - G.U. n°61 del6/3/68) istituì e introdusse nel nostro ordinamenton°15 Regioni a statuto ordinario. Ci fuil voto favorevole dei partiti allora di governo(DC, PSI, PRI e PSDI), delle opposizioni disinistra (PCI e PSIUP), e il voto contrario diPLI, PDIUM ed MSI. Preesistevano 5 regionia statuto speciale (il Friuli-Venezia Giulia dal1963). Le prime elezioni si tennero nel 1970 eda allora un totale di ben 20 regioni ha iniziatoil suo iter amministrativo e legislativo. Dal1970 dunque, oltre ai Comuni e alle Province,un’altra istituzione intermedia è andata ad accrescerel’apparato burocratico dello Stato.Ricordo che negli anni dal 1965 al 1970il rapporto debito pubblico/PIL si collocavaintorno al 48-50%, valore che, perinciso, oggi sarebbe miracoloso e ci collocherebbetra i Paesi più solidi e stabili nelmondo, in termini di finanza pubblica. èil caso di ricordare che solo pochianni prima, a gennaio 1960,il “Financial Times” diLondra assegnando,come tutti gli anni, ipremi Oscar della Finanzascelse proprio la liraitaliana, per la sua stabilità eper l’acquisita forza dell’economiaretrostante.Ora, non si può ritenere che lasola introduzione di 15 amministrazioni regionaliabbia determinato il progredire del rapportodebito /pil fino all’attuale 120%; tuttavia il collegamentoappare evidente se solo si consideral’aggravio di spesa che tali enti hanno determinatoin pochi decenni. Di certo nel frattempoabbiamo assistito e anche pagato gli errori del’68, i non pochi effetti negativi di normative sullavoro che hanno indebolito il sistema produttivo,il declino clamoroso degli aspetti educativi eformativi della scuola, ecc.La riprova del danno subito sta comunque nelfatto che se, nei primi 20 anni del dopoguerra, ilPaese è cresciuto economicamente in modo vertiginoso,mantenendo nel contempo stabili monetae debito pubblico in assenza delle amministrazioniregionali, ciò significa con tutta evidenzache di tale innovazione non c’era bisogno.Si doveva dunque non solo non istituire leregioni a statuto ordinario, ma addirittura limitareo ridurre poteri e costi di quelle a statutospeciale. Quando poi in anni più recenti tale regionalismoè diventato di fatto la forma con cuiistanze federaliste hanno preso gradatamente ilsopravvento rispetto allo stato unitario risorgimentale,oltre ai danni in termini di finanzapubblica si sono aggiunti quelli disgregativi delsentimento di unità nazionale, quelli di costosesovrapposizioni burocratiche e di accondiscendenzaa localismi di ogni genere.“Il bene primario di un popolo è la sua dignità”,è una tra le citazione più note di Cavour:non può non essere intesa nel senso dell’unitànazionale e del comune senso di coesione perun fine comune, cementato da unità di intenti,non certamente di rivendicazioni autonomistesecondo le quali l’unità nazionale è un disvaloree costituisce un ostacolo ai presunti beneficidella libertà dallo stato oppressore.Chi condivide con me l’interpretazione negativadel federalismo-iperregionalismo non puònon valutare quella che doveva essere invece lapolitica da seguire su questi temi e cioè procedere,al contrario, ad una diminuzione delle prerogativedelle regioni a statuto speciale, che neidecenni si sono dimostrate fonte di ingiustizia edisparità a livello nazionale, di centri di potere edi spesa spesso abnormi e di difficile controllo,con accentuazioni più marcate in parti diversed’Italia. Tali considerazioni sono state più volteespresse nelle relazioni annuali della Corte deiConti, ma purtroppo diffusamente inascoltate.Un grande e rinnovato spirito di coesionenazionale può favorire il superamento dellagrave crisi in atto, con la riduzione di numerosicentri di spesa improduttiva, aggravato peraltrodagli accresciuti costi di una pubblica amministrazioneesuberante e farraginosa. Anche cosìsi determinano i prerequisiti per un visione globalema solidale del pianeta.è bene chiarire che quanto ho affermato si riferisceall’Italia, mentre la creazione di un’ entitapiù omogenea a livello europeo, potrebbe giovarealla forza del nostro continente, per una più marcatacapacità competitiva sullo scenario mondialee soprattutto una maggiore possibilità di aiuto aiPaesi terzi bisognosi di cooperazione e coesione,in un’ottica di nazione umana universale.