Cavalli-Sforza: le razze… non esistono! [1a Parte]
Società
Scritto da Piervittorio Formichetti   

L'anno 2012, che si è chiuso con la scomparsa di Rita Levi-Montalcini, celebre scienziata e grande donna contemporanea, emigrata negli USA per non subire le leggi razziali fasciste contro gli ebrei, si era aperto con i 90 anni (compiuti il 25 gennaio) di un altro "grande vecchio" italiano, importante proprio per i rapporti tra scienza e razzismo

: Luigi Luca Cavalli-Sforza, genovese, biologo e genetista che ha lavorato nelle Università di Parma, Pavia, Cambridge e Stanford, in California. I risultati delle sue approfondite e innovatrici ricerche si trovano soprattutto nelle due pubblicazioni Geni, popoli e lingue e Storia e geografia dei geni umani, con cui il genetista dimostra che lo stesso concetto di «razza» va ormai superato.
L'esistenza di differenze tra le nazioni e tra i popoli – scrive – è un fatto chiaro, ma l' uomo della strada non si chiede a che cosa siano dovute. Per molte persone gli altri sono diversi da noi e basta, e noi, con le nostre caratteristiche e le nostre abitudini, siamo i migliori. La diffidenza e anche la paura verso l'altro possono degenerare facilmente in razzismo, che – come ha ricordato tra gli altri l'antropologo Lévi-Strauss, è la convinzione che una razza (la "nostra") sia la migliore, o comunque eccellente, dal punto di vista biologico: è alla superiorità dei nostri geni, dei nostri cromosomi, del nostro DNA che dobbiamo il nostro vantaggio su tutti gli altri; e se questa superiorità è biologica, è anche eterna!
Ma – si chiede Cavalli-Sforza – esiste davvero una base biologica del razzismo? Possiamo escludere che esista una razza superiore, o almeno che esistano gradazioni di superiorità tra le razze; possiamo escludere che si potrebbe dimostrarlo scientificamente?
È certo che esistano differenze tra i vari gruppi umani per il colore della pelle, i capelli, la forma degli occhi, della faccia, del corpo; e non c'è dubbio che siano almeno in parte ereditarie. Queste differenze che ci colpiscono sono le stesse che colpivano i nostri antenati, e ci colpiscono perché sono chiare e incontestabili: tranne nel caso di incroci, è abbastanza facile riconoscere un "nero" , un "bianco" o un "giallo", e questo può darci l' impressione che esistano razze "pure".
In realtà queste diversità si devono alle differenze ambientali incontrate dall'Uomo durante la sua espansione sula Terra a partire dalla regione d'origine, l'Africa; ciò ha comportato un adattamento alle condizioni ecologiche, soprattutto climatiche, che nel corso di circa 50 000 anni ha prodotto una vera e propria variazione genetica con la precisa funzione di salvaguardare la sopravvivenza: il colore nero della pelle protegge coloro che vivono vicino all'Equatore dalle infiammazioni cutanee dovute ai raggi ultravioletti del Sole; troviamo infatti il colore scuro della pelle anche ai tropici, dove l'irradiazione solare è molto forte. Anche la forma e la dimensione del corpo sono adattate sia alla temperatura, sia all' umidità: nei climi caldi e umidi, come quello della foresta tropicale, conviene essere piccoli per avere meno bisogno di energia e dunque produrre meno calore all'interno del corpo quando ci si muove: in questo modo si può diminuire la possibilità di surriscaldamento, che potrebbe causare un colpo di calore. Ecco perché gli abitanti delle foreste tropicali – e non solo i famosi pigmei – sono piccoli; inoltre hanno i capelli crespi, che permettono al sudore di restare più a lungo prolungando l'effetto refrigerante della traspirazione. Al contrario, la faccia e il corpo mongolici sono «costruiti» per proteggere contro il freddo, molto intenso sugli altopiani dell'Asia centrale. Il corpo e soprattutto la testa tendono il più possibile alla rotondità, e il volume del corpo è maggiore, per ridurre la perdita di calore interno verso l'esterno. Il naso e le narici sono piccoli in modo che l'aria arrivi ai polmoni più lentamente, e abbia il tempo di scaldarsi. Gli occhi "a mandorla" sono tali grazie alle palpebre, che sono «vere e proprie borse di grasso» che fanno da isolamento termico, proteggendo gli occhi dai freddissimi venti siberiani e permettendo ugualmente agli orientali di vedere. La forma della testa risulta dal rapporto tra le misure della calotta cranica e quelle della faccia: quest'ultima si riduce nelle regioni fredde. La superficie del corpo può dunque influenzarci perché è immediatamente visibile.
Al contrario, a livello microscopico esiste una grande eterogeneità genetica fra individui, qualunque sia la popolazione di origine; questa variazione è sempre grande in qualunque gruppo, sia quello di un continente, una regione, una città o un villaggio, ed è più grande di quella che si trova fra continenti, regioni, città e villaggi. La «purezza della razza» perciò è inesistente e impossibile!
Ma allora che cos'è veramente una razza? Con razza – dice Cavalli-Sforza – si può intendere un gruppo di individui che si possono riconoscere come biologicamente diversi dagli altri, cioè la diversità di una razza dalle altre deve essere provata per mezzo della significatività statistica; quest'ultima a sua volta dipende dal numero degli individui e dei loro geni presi in esame. Ma teoricamente non ci sono limiti al numero di geni che si possono studiare: se esaminiamo abbastanza geni, la distanza genetica può essere statisticamente significativa anche tra due città italiane in una stessa regione. Una classificazione della popolazione mondiale in razze, perciò, sarebbe inutile perché ne produrrebbe almeno migliaia! Vi sono differenze, per quanto piccole, anche tra villaggi vicini, ma sono insignificanti, perché – come vedremo – la differenza genetica cresce con la distanza storico-geografica, ma resta insignificante tra individui di una stessa popolazione; la classificazione in razze sembra allora impossibile!
A questo punto bisogna spiegare quali sono le basi della genetica grazie alle quali Cavalli-Sforza può dimostrarci che le razze... non esistono.
Il DNA (acido desossiribonucleico) è «il materiale genetico per eccellenza», è quindi ideale per gli studi sull'evoluzione umana, e in certi casi si conserva in maniera sorprendente. Ognuno di noi ha nel nucleo delle proprie cellule 46 cromosomi, divisi in 23 coppie riconoscibili dalla loro forma e lunghezza. Ogni cromosoma contiene un filamento lungo ed estremamente sottile di DNA; il DNA è formato da una lunghissima serie di costituenti elementari chiamati nucleotidi, che sono di quattro tipi: adenina (A), citosina (C), guanina (G), timina (T). Un segmento di questa catena con una particolare funzione biologica è detto gene. Un cambiamento, perdita o aggiunta di uno o più nucleotidi in un segmento del DNA può cambiare la funzione del gene corrispondente: questo fenomeno avviene per caso e con bassa probabilità ed è chiamato mutazione. La mutazione si trasmette ai discendenti perché il DNA dei figli si forma copiando quello dei genitori; è come se la mutazione fosse un errore di copia nella riproduzione del DNA.
Alcune sequenze del DNA sono composte da un gran numero di ripetizioni di nucleotidi in coppia, le più comuni sono formate da citosina e adenina (CA). Nei segmenti di DNA formati da più di 10 o 15 ripetizioni continue della coppia CA è possibile che il processo di riproduzione del DNA si possa allungare (aggiunta di una coppia CA) o accorciare (perdita di una coppia CA). Questi "incidenti" sono sparsi a caso lungo la catena del DNA e vengono utilizzati come preziosi «marcatori genetici»; gli scienziati utilizzano la frequenza di mutazione come un orologio biologico: se si può conoscere la frequenza di mutazione di certi geni per generazione, e contare gli elementi mutanti che separano due popolazioni (o due loro componenti principali) per questi geni, si può valutare la loro separazione nel corso dell'evoluzione in numero di generazioni; e la durata di una generazione è nota (ne nascono tre o quattro per secolo). La frequenza di mutazione è stata stimata vicina a 1 ogni 2000 individui per generazione.
L'analisi del DNA può fornire così informazioni molto più sicure di quelle ottenute esaminando soltanto i caratteri antropometrici e morfologici (per esempio la statura e il colore della pelle); ma è limitata per quanto riguarda il DNA dell'Uomo dal Neolitico all'Età del Bronzo (circa dal 10 000 al 1500 a. C.), mentre ci sono molti più dati sulle popolazioni più recenti. Questo metodo tiene conto del principio secondo cui, nel processo evolutivo, una popolazione iniziale spesso si suddivide in frazioni che occupano regioni diverse ed evolvono indipendentemente l'una dall'altra differenziandosi tra loro nel corso del tempo; quanto maggiore è il tempo di separazione dal ceppo iniziale, tanto più numerose e geneticamente differenti saranno le popolazioni che ne deriveranno. Questa evoluzione dell' Uomo è condizionata da quattro fattori:
– le mutazioni, che sono cambiamenti casuali a livello cellulare e quasi sempre causano patologie, che eliminano i loro portatori;
– la selezione naturale, che consente agli individui nati casualmente più adatti degli altri a vivere in un determinato ambiente, di sopravvivere e moltiplicarsi;
– la deriva genetica, che è il percorso di una linea genetica rimasta a lungo isolata da altre o con scarsissimo apporto di geni "esterni" (per es. il popolo basco in Spagna o quello sardo in Italia). La deriva genetica tende alla omogeneizzazione finale di quella popolazione, ma nel frattempo l'andamento del suo patrimonio genetico è fluttuante, nel senso che per la statistica è impossibile sapere quale tipo genetico diverrà alla fine quello unico (per es. la prevalenza definitiva di un gruppo sanguigno tra tutti);
– le migrazioni, di individui e famiglie da un luogo all'altro e da una popolazione all'altra, che sono iniziate già nella preistoria con le attività di caccia e raccolta (che richiedevano più movimenti di gruppo rispetto all' attività agricola, che si svilupperà successivamente con la sedentarietà), e sono continuate nel tempo soprattutto in concomitanza con matrimoni misti. Queste migrazioni sono dette piccole migrazioni, sono relativamente frequenti e coprono piccole distanze; invece le grandi migrazioni sono più rare, perché coinvolgono grandi gruppi di individui che vanno a stabilirsi definitivamente in un nuovo luogo, talvolta molto lontano dal luogo di origine, e perciò equivalgono alle colonizzazioni.