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Articoli - Società

Con le tecnologie e le esperienze
di cui disponiamo oggi, fatica, precarietà, lavoro dannoso e insicurezza potrebbero essere accantonati e banditi per sempre
e invece sono ancora ben presenti
nella vita di molti esseri umani

 

Fatica e stress: due parole abusate ma che nell’analisi di quanto sta accadendo nella società italiana dei tempi attuali, è bene non dimenticare. Sottolineo infatti che esistono ancora “tempi e metodi” da osservare nei cicli produttivi, ritmi da seguire (crescenti negli ultimi anni), pause per bisogni fisiologici marcate come gli orari degli antibiotici, ripetitività nei movimenti, posizioni innaturali, svilimento della persona umana, autoritarismo da subire, talvolta mobbing.

Tutto ciò avviene a dispetto delle analisi di tanti sedicenti intellettuali che sproloquiano sul post fordismo o sulla società post industriale, sulla “finanziarizzazione dell’economia”, senza avere la minima competenza per l’appunto in economia, né in economia aziendale e senza aver mai visto in vita loro un’impresa dal di dentro. Preciso al riguardo che la sola evidenza di spesso sovraretribuite presenze in consigli d’amministrazione, corredate da numerose, contemporanee e cospicue cariche di matrice lobbistica, non contano a mio parere per il curriculum di presenza nel reale mondo del lavoro.

I disagi per chi lavora, che ho sintetizzato dianzi, sono aumentati nell’ultimo decennio, a causa soprattutto della precarietà del lavoro, che a sua volta deriva dalla debolezza della nostra economia e più in generale del cosiddetto sistema-paese, martoriato da mezzo secolo di errori, di demagogia e di conformismo. La persistente fatica del lavoro si verifica in gran parte del settore privato, ma anche in vaste aree della pubblica amministrazione. Recentemente ad un pronto soccorso, l’addetta all’accettazione contemporaneamente effettuava la mia registrazione, mi misurava battiti e pressione arteriosa e con la mano e l’orecchio liberi parlava al telefono, di lavoro. Mi è andata bene che le due cifre finali dell’anno di nascita non sono finite nel dato della frequenza cardiaca, perché ne sarei risultato immeritatamente un grande bradicardico.

Stessi tempi, dilatazione d’orario lavorativo nella giornata, incertezza di risultato economico, valgono per molti lavoratori autonomi o comunque operanti in proprio, che per mantenere in piedi le loro attività si spendono e spremono al massimo.

Talvolta parlo con queste persone: alcune sono ex colleghi, spesso sono stremati. Agricoltura, industria, terziario: la tradizionale suddivisione in settori economici non rileva per quanto ho esposto, con la particolarità che in agricoltura ed edilizia nonché nel lavoro domestico vi sono anche i picchi di insicurezza rispetto agl’infortuni, mentre le più subdole malattie professionali sono ancora appannaggio dell’industria chimica, alimentare, estrattiva e in genere negli ambienti fumosi, rumorosi o comunque contaminati. Un caso particolare riguarda l’inquinamento acustico che può colpire gli ambienti lavorativi (endogeno), ma anche quelli domestici (esogeno) se si è ad esempio vittima delle varie “movide” diurne e notturne, applaudito regno d’elezione per universitari di lungo (e fuori) corso e nullafacenti di varia indole e specie.

Ma si deve correre e stressarsi anche nella vita privata, quella di semplici cittadini, soffocati dalla burocrazia, dalle inefficienze e dalla difficile tutela del cittadino onesto e del cittadino che chiede giustizia o cure mediche. 

Insomma una pluralità di soggetti è danneggiata dagli effetti nocivi della demagogia e del conformismo che governano il Paese da decenni.

In contemporanea presenza a tutti i soggetti di cui ho sintetizzato le difficoltà, ci sono “gli altri”, cioè i pochi che ne sono immuni, con gradi diversi di privilegio. Poiché ho anche la mania dei numeri, quantifico “gli altri” in quattro o cinque milioni di individui. Tra questi, osservo che la parte che si è bene e legittimamente posta al riparo da vari rischi e ha ottenuto questo risultato per merito, per lungimiranza, per capacità e onesta operosità, sta diventando vieppiù minoritaria.

Ovviamente se guardo fuori d’Italia, vi sono situazioni molto migliori e altre sciaguratamente peggiori.

Ma torno al nostro Paese, che è uno dei malati da guarire e ci ritorno non solo perché sono italiano ma perché, guarita, l’Italia avrebbe ancora grandi potenzialità per essere utile al consesso mondiale, nel ridurre sofferenze, ingiustizie, violenze ancora tanto presenti in varie parti del mondo.

La Nazione Umana Universale ha bisogno di costruttori lucidi, forti, capaci, ottimisti, per essere gradualmente edificata. L’integrazione, il dialogo e la convergenza fra culture, trovano la possibilità di massima espressione nel far convergere gli sforzi e le sinergie verso obiettivi comuni di benessere e progresso. Le esperienze messe a fattor comune, nel reciproco rispetto, sono produttive, favoriscono naturalmente processi non violenti e attivi, come avviene in qualsiasi organizzazione di esseri viventi.

Ho scritto in passato, nei miei mensili interventi su Conexión, per quasi un anno come “L’antifederalista” ora con altro titolo fisso, quali sono i principali problemi e quali le terapie che per me sono da prediligere. So di essere voce fuori dal coro, ma tanto mi si può chiedere, ma non di accorparmi alla soffocante macchina del conformismo nazionale. 

Confido che i lettori di Conexión abbiano accettato e accettino l’invito a loro rivolto di considerarne ogni numero un numero da collezione. Qualcosa di quanto propongo si trova nei numeri precedenti. Pongo la mia proposta con tanta modestia e apertura, ma chi aderisce all’invito fa poco della fatica di cui sopra.

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