George Jackson, il “fratello di Soledad”
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Alcune di queste notizie giungono anche nelle celle d’isolamento di San Quintino e di Soledad; anche per questo, Jackson ripensando alla storia dello schiavismo perpetrato dai governi d’Europa e d’America, e al razzismo che ha contraddistinto fino a quel momento la società anglosassone, prende maggiore coscienza della situazione di inferiorità in cui sono stati costretti i neri degli USA: «L’idea che si fanno in questa parte del mondo è che siamo abili in uno o due campi soltanto, i servizi o lo spettacolo (cantanti, ballerini, pugili, giocatori di baseball) […], che non sappiamo fare altro che servire o divertire coloro che ci hanno catturati»; «la realtà è che noi siamo il solo gruppo avente fattori incorporati (caratteristiche fisiche) i quali vietano ogni forma di mobilità socioeconomica. Siamo i totalmente privi del diritto di cittadinanza, il fanciullo castigato al posto del principino, il capro espiatorio, lo stuoino della nazione»; «siamo stati portati qui dall’Africa e da altre parti del mondo ricche di palmizi e di sole, con la costrizione, e sotto la costrizione abbiamo vissuto ogni giorno della nostra esistenza»; «è difficile, molto difficile procurarsi dati concernenti la nostra storia e i nostri modi di vivere […] Non conosciamo affatto il nostro retaggio. La condizione economica in cui ci troviamo ha ridotto le nostre menti a un completo oblio»; «In qual modo […] abbiamo perduto la nostra identità così rapidamente? Gli ultimi neri furono portati in questo paese appena settantacinque o ottant’anni fa, tre generazioni al massimo. Io non conosco nemmeno il mio nome [quello originario dell’Africa] […] Siamo stati alienati dalle nostre origini, isolati e rimodellati per adattarci a certe forme, per servire a uno scopo specifico. Nessuno considerò mai, o ha mai considerato, che potremmo essere qualcosa di diverso da quanto si volle originariamente che fossimo»; «Le forme di schiavismo sono semplicemente passate, dalla firma del Proclama di Emancipazione [promulgato da Abraham Lincoln nel 1862], dallo schiavismo privato allo schiavismo economico»; «Dopo la guerra civile [o di Secessione, 1861-1865], lo schiavismo personale divenne schiavismo economico, e noi fummo gettati sul mercato del lavoro a competere, in condizioni di svantaggio, con i bianchi poveri. A partire da allora, […] lo schiavista era ed è il proprietario di fabbriche, l’uomo d’affari dell’ Amerika capitalistica»; «Le colonie nere d’ Amerika sono state costrette nella miseria sin dalla fine della guerra civile […] L’inizio del nuovo schiavismo fu contrassegnato da una massiccia disoccupazione e sottoccupazione. Quest’ultima continua tuttora. La guerra civile distrusse l’aristocrazia terriera. La dittatura degli agrari venne spodestata dalla dittatura della classe industriale capitalista. […] Dato che noi non avevamo alcuna specializzazione, a parte le tecniche agricole che si erano dimostrate non economiche, ci toccarono i servizi sussidiari e le occupazioni servili. È così ancora oggi»; «La nostra gente reagisce in modi diversi a questo neoschiavismo: alcuni rinunciano del tutto alla lotta e passano dall’altra parte […]. Alcuni diventano bevitori inveterati e tossicomani, nel tentativo di consolarsi in qualche modo, mentalmente, delle depravazioni fisiche che debbono subire. Li ho sentiti dire: “Non c’è speranza senza la droga” […] Poi vi sono coloro che resistono e si ribellano, […] sono consapevoli ma confusi. Si tratta dei meno fortunati, perché finiscono dove sono finito io [e] cadono vittime di tutta la furia repressiva del sistema».

George non vuole rassegnarsi a queste ingiustizie, e attraverso le letture e gli studi in carcere comprende l’importanza dell’Africa per il mondo: «La cultura nera è un argomento monumentale, che copre innumerevoli anni. Il primo uomo, e per conseguenza la prima cultura, furono neri»; «L’Africa è il più bello dei continenti. Hanno tutto in fatto di risorse umane e naturali. Il petrolio in Egitto, in Libia, in Tunisia, in Algeria e nella Nigeria. Rame, diamanti, cobalto e oro nello Zambia. Esistono enormi depositi di minerale di ferro in Liberia […]. Nomina qualsiasi cosa e la troverai in qualche parte dell’Africa. […] Le cinque città più antiche del mondo si trovano in Africa. La lingua più antica è il mande. I più antichi resti dell’esistenza dell’uomo preistorico furono trovati in Africa […] Occorrerebbero un mese e una lettera lunga come l’elenco telefonico per dare un’idea di tutte le risorse dell’Africa». Al senso di umiliazione inflitto agli africani, Jackson reagisce però anche rifiutando e disprezzando in blocco come «fascismo» tutte le caratteristiche delle società occidentali, in primo luogo il cristianesimo: educato da bambino in una scuola cattolica, ora la ricorda come espressione della «cultura nemica dominante», un «gruppetto di missionari con le loro vesti ridicole e i riti barbari, che offriva l’intera gamma della propaganda occidentale», cioè «Spiriti Santi, confessioni e razzismo». La Bibbia in latino gli appare «un mucchio di rituale europeo, un mucchio di formule magiche tramandate dalle epoche tenebrose dell’Europa, […] uno studio totalmente inutile», e giunge a pensare che «se una qualsiasi quantità di tempo viene dedicata alla religione nelle ore di scuola, l’allievo è frodato». Dio stesso gli sembra niente più di «un superuomo benevolo» e «il prodotto di una mente torturata e folle. È un faticoso e scervellato tentativo di spiegare l’ignoranza, uno strumento per tenere in riga la gente di bassa levatura, […] un’invenzione per gli imbecilli, le vecchie e, naturalmente, i negri. È una reliquia del passato, quando gli uomini inventavano parole e difese assurde per cose come i serpenti di mare, la magia e la terra piatta».

L’accanito e sprezzante ateismo di George si spiega anche col fatto che, attraverso le letture e gli studi in carcere, egli, come altri attivisti neri, ha maturato una fede del tutto diversa, quella nell’ideologia comunista e nella rivoluzione armata: «Quando entrai in carcere, scoprii Marx, Lenin, Tročkij, Engels e Mao, e ne fui redento»; «Mandiamo i nostri figli nei luoghi della cultura diretti da uomini che ci odiano e odiano la verità. È ovvio che non andare a scuola sarebbe preferibile. Bruciate le scuole, e tutta la letteratura fascista, bruciate anche quella. Poi procuratevi il Libretto Rosso. È il solo modo di ritrovare il senno. […] Bruciateli, o impadronitevene come proprietà collettive del popolo, e date alle colonie una cassa piena di dinamite, di autodeterminazione, di anticolonialismo e di pensiero di Mao!!!». Non si può sapere quanto Jackson conoscesse delle reali vicende del mondo comunista, per esempio la rivolta ungherese del 1956 o l’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’URSS nel 1968, proprio pochi mesi dopo le uccisioni di King e di Kennedy. La sua venerazione per il comunismo come movimento antioccidentale gli fa pensare, per esempio, che «i cinesi hanno aiutato ogni movimento anticoloniale sorto dopo che il loro ha trionfato» perché sono «un popolo meraviglioso e virtuoso», e che «Quando i cinesi costruiscono una fabbrica» in Africa, a differenza degli Stati Uniti, che «lasciano dirigenti americani e pretendono il 90 % dell’incasso lordo come loro giusta parte degli utili», i cinesi «assumono africani, addestrano dirigenti africani e se ne vanno» senza chiedere alcun interesse sui prestiti, e costruendo «senza impadronirsi di quanto hanno costruito e senza capitalizzare»: «deve trattarsi di amore», conclude Jackson senza alcun dubbio. Viceversa, di Martin Luther King scrive, poco dopo il suo assassinio: «Egli non mi dispiacque mai come uomo. Come uomo gli accordavo il rispetto che meritava la sua sincerità. Soltanto come leader del pensiero nero dissentivo da lui. […] Egli era fuori posto, fuori stagione, troppo ingenuo, troppo innocente, troppo colto, troppo civile per tempi come questi» nei quali «la giungla è sempre giungla, sia essa formata da alberi o da grattacieli, e la legge della giungla è: mordere o essere morsi». Un anno prima, con King ancora vivo, aveva scritto: «King e gli uomini come lui hanno tradito i nostri interessi più cari con il loro delirio demagogico. Il povero sciocco non sa niente della vera natura del suo antagonista».

Grazie all’avvocata Fay Stender, le lettere di George Jackson sono state pubblicate e tradotte già mentre l’ autore si trovava ancora in carcere: l’ultima è dell’agosto 1970 ed è indirizzata a Joan. Dopo questa data, Jackson ha continuato a scrivere, ed eventuali lettere successive sono poi state pubblicate? L’unica notizia rintracciabile che lo riguarda sembra essere quella della sua tragica morte «in una pozza di sangue» il 21 agosto del 1971 nel carcere di San Quintino, dove evidentemente era stato nuovamente trasferito.

Al di là dell’estremismo ideologico e dell’autocompiacimento di essere divenuto un simbolo, che talvolta traspaiono dalle sue lettere, George Lester Jackson può essere considerato a tutti gli effetti un testimone diretto dell’ingiustizia e della violenza razzista, ancora presenti anche in una «grande democrazia occidentale» come gli Stati Uniti d’America negli ultimi anni del secolo scorso.      

[ I fratelli di Soledad. Lettere dal carcere di GeorgeJackson, Torino, Einaudi, 1970, pp. XVI + 284 ]