Mafiose? No, solo donne |
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Nel mondo della criminalità organizzata si è stati soliti ritenere molto a lungo la donna, moglie figlia, sorella o comunque parente di boss come una figura di importanza assolutamente secondaria.
Lo stesso statuto non scritto di Cosa Nostra vieta l’affiliazione a poliziotti, gay, e alle donne, queste ultime proprio per la loro natura. Ancora nel 1985, i magistrati di Palermo si rifiuteranno di condannare Francesca Citardi, moglie del boss Giovanni Bontate e coinvolta dal marito nel riciclaggio di denaro sporco in Sicilia, con la motivazione che, in quanto donna e quindi non sufficientemente emancipata dal potere maschile, la Citardi si è trovata in un certo senso a subire la volontà del marito non possedendo la sufficiente autonomia per essere una delinquente! In realtà, come testimonia il magistrato Teresa Principato, che alle mafiose ha dedicato un bel libro nel 1997, queste sentenze sono state viziate da un gravissimo pregiudizio maschilista di fondo, perché le donne in mafia esistono e sono più attive e capaci di cosa si possa credere. Il numero di donne indagate per associazione mafiosa è infatti lievitato abbastanza in fretta da 0 nel 1989 a 77 nel 1998, con un picco di 89 nel 1995. Limitandoci alla mafia siciliana, non si può certo dimenticare la carismatica figura di Giusy Vitale, sorella del boss Vito, che nel 1998, all’arresto del fratello, diventa il potente boss di Partinico, e che solo dopo quasi cinque anni di prigione e davanti alle richieste del figlio, deciderà di collaborare con la giustizia. Nella ’Ndrangheta calabrese, specializzata nei sequestri di persona, il processo di emancipazione della donna inizia nei ’70, con il compito di portare cibo ai sequestrati (come nel famoso caso del rapimento di Paul Getty jr nel 1973) , ma sarà solo nel 2000 che la DIA, ovvero la Direzione Investigativa Antimafia rivelerà che dei 7358 affiliati alla ’Ndrangheta reggina, 255 sono donne. Queste stesse donne rivestono ormai un ruolo decisivo, in quanto custodi della memoria, perché sono loro che hanno il compito basilare di trasmettere la cultura e i valori mafiosi ai figli, e perché ormai sono totalmente autonome, e viaggiano ovunque in piena libertà, combinando affari (il denaro ricavato dai sequestri viene investito nell’immobiliare, come succede in Germania, o nella droga, come in Olanda). Nella Camorra napoletana, il processo di emancipazione femminile è più antico, come testimonia il noto caso di Pupetta Maresca, portato sullo schermo recentemente da Manuela Arcuri,che andata in sposa giovanissima (primissimi anni ’50) a un piccolo camorrista, il quale viene assassinato poco dopo, decide di farsi giustizia da sola. Incinta, si reca a Napoli in cerca del killer e lo “giustizia”, facendosi condannare a tredici anni di prigione (e partorendo in carcere). Altro caso emblematico è quello di Celeste Giuliano, la boss del rione napoletano di Forcella, che assume il pieno comando all’arresto dei suoi cinque fratelli e che verrà arrestata a sua volta nel 2001. Il comandante dei carabinieri che ha organizzato la “caccia” alla criminale, durata quasi un anno, dichiarerà. “Questa donna è un leader. Ha qualità solitamente tipiche dell´uomo: carisma e buone capacità organizzative.” Bisogna dunque fare i conti con una nuova, paradossale, realtà: ora che i mafiosi finiscono in galera più facilmente, una nuova generazione ne prende il posto, ed è declinata al femminile. Quando, ad esempio, il pentitismo ha preso piede a Palermo, sono state proprio le donne dei mafiosi che si sono attivate per difendere l’organizzazione contro i cosiddetti canarini, cioè i venduti alla giustizia. Davvero singolare in questo senso è l’episodio riferito da Giovanni Falcone che riguarda il primo aspirante al pentimento del clan dei corleonesi, un certo Vincenzo Buffa. All’apertura del suo processo, Buffa, impressionato dal coro unanime di moglie e sorella che lo accusano di essere pazzo e di considerarlo ormai morto, si affretterà a ritirare tutto. La storia di Cosa Nostra non è solo questa, fortunatamente, ma anche quella di donne molto coraggiose che spesso hanno pagato con un conto salatissimo la loro opposizione al sistema mafioso. Cito tre casi principali: nel 1962, a Palermo, Serafina Battaglia è la prima a infrangere il muro di omertà denunciando i killer del figlio. Sempre a Palermo, stavolta nel 1986, Michela Buscemi riesce a far processare i sicari del fratello, colpevole di contrabbando di tabacchi senza il permesso del suo boss. Ma la storia forse più toccante è quella della diciassettenne Rita Atria (siamo nel 1992), nonostante la sua sia una importante famosa mafiosa di Partanna, la giovane, quando il padre e il fratello vengono uccisi, si rivolge al magistrato Paolo Borsellino. Una volta ucciso Borsellino nella strage di via d’Amelio, la stessa Rita si uccide, lasciando scritte le seguenti parole: “La mafia siamo NOI… Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono MORTA”. |