Il trattamento della disabilità psichica in Italia
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Nel maggio 1978, lo psichiatra triestino Franco Basaglia, dopo durissime battaglie contro ogni forma di opposizione sociale, per le quali venne anche brevemente imprigionato, riuscì nel suo intento di far approvare la legge che porta il suo nome, conosciuta oggi come legge 180.

Che cosa ordinava questa legge, tuttora in vigore? Niente altro che la chiusura dei famigerati manicomi, gli istituti dove erano pressoché reclusi la maggioranza degli invalidi mentali e lasciati letteralmente in balia di se stessi, per sostituirli con ambulatori usl di igiene mentale. I malati erano difatti sottoposti per la maggior parte a un durissimo sistema di detenzione che ricordava, senza paura di scrivere un’eresia, quello di un lager tedesco, il quale contemplava la somministrazione ripetuta di elettroshock (in merito a ciò si legga il bel libro del giornalista de la Stampa Papuzzi, sul caso dello psichiatra Coda di Collegno, il cui titolo è “Portami su quello che canta”), docce gelide, violenze fisiche e verbali, varie forme di ritenzione ai letti e l’assenza pressoché completa di ogni forma di assistenza igienico-sanitaria. Tra le varie forme di tortura ricordiamo di passata il caso di due sorelle rinchiuse per oltre trenta anni in una gabbia! Proviamo a raccontare la vita che passava un paziente fin verso la metà degli anni ’60 in un qualsiasi manicomio torinese (il primo fu fondato già nel 1728 per volere del duca Vittorio Amedeo II nella zona dell’attuale via Garibaldi), usando come fonte il prezioso libro di Alberto Papuzzi, Portami su quello che canta, pubblicato nel 1977. Ore cinque, a volte sei: sveglia nei dormitori; in ogni reparto c’è qualcuno legato con cinghie. Pochi malati si lavano, i servizi sono comunque insufficienti, inesistenti i bidet, una o due per reparto le vasche da bagno! Gli infermieri distribuiscono le dosi di psicofarmaci, in locali di fortuna si praticano le  delicatissime terapie d’urto. Pomeriggio: divieto assoluto di entrare nei dormitori, per cui i degenti, intontiti dalle massicce dosi di medicinali, dormono dove capita, d’inverno accosciati ai termosifoni, d’estate coricati nei cortili. Alle diciannove i malati sono già a letto; i letti sono pressoché attaccati, non c’è nemmeno mezzo metro di distanza tra essi. Pochissimi, in queste condizioni, sono i ricoverati interessati a qualche attività ricreativa e inoltre pochissimi possono ricevere visite, altissima invece è la promiscuità tra adulti e minori, con il beneplacito di qualche infermiere corrotto. Un patronato di beneficenza organizza (due volte l’anno!!!), una festicciola, con canti, balli, e stelle filanti…Il gravissimo problema fu che, alla chiusura dei manicomi, non venne attuata, almeno per un po’ di tempo, una vera formula di assistenza ai loro vecchi pazienti o ai disabili psichici; prova emblematica  ne fu che alla chiusura del manicomio di Collegno molti dei suoi assistiti finirono con il suicidarsi a causa della mancanza pressoché totale di sostegno, che prima, anche se nella maniera distorta che abbiamo sino qui ricordato, in qualche maniera avevano! Questa è una dimostrazione abbastanza eloquente del modo in cui la disabilità psichica è trattata tuttora nel nostro (bel) paese… e certo ora con l’acuirsi della crisi economica, la situazione non è di sicuro migliorata! Se comunque, fino alla seconda metà dei ’90, in base alle testimonianze da noi raccolte (in particolare ci riferiamo all’ambulatorio di via Da Verrazzano, in Crocetta),i malati disponevano ancora in una certa maniera di un determinato numero di strutture a loro dedicate che offrivano pasti completi, servizi di lavanderia, corsi di arte, sedute di cure estetiche,corsi di ginnastica terapeutica, adesso, con tutti i tagli subiti e i soldi sprecati dalla sanità piemontese la situazione non è delle più rosee! Non è certo un segreto, anzi, è facilmente intuibile, che la gestione scriteriata della sanità da parte dei vari governi succedutisi negli ultimi venti anni abbia fatto la parte del leone in questo processo di decadimento. Nonostante tutte le difficoltà, però qualche bella realtà esiste tuttora, come i vari centri diurni per l’assistenza psichica (tra cui ricordiamo quello di via Bidone, zona San Salvario, e quello di via Leoncavallo) aperti da lunedì a sabato, l’associazione de il Bandolo, attiva dal 2005, con sede in via Sacchi 32, specializzata in attività ricreative e strategie d’inserimento lavorativo verso soggetti disagiati, o il Self Help, di via Giuria, dove si può disporre due volte alla settimana di un pasto a una cifra irrisoria,o l’interessante iniziativa del Turin Mad Pride, promossa da giovani volenterosi e in gamba, come affiancamento ai centri diurni, con sede in via Luserna di Rorà 8. Qualcosa si sta muovendo, quindi, e questo, considerate le grosse difficoltà sino qui enunciate, ci fa ancora ben sperare, speriamo non troppo utopisticamente, in una definitiva risoluzione sociopolitica al dramma dell’assistenza alla disabilità psichica.