Rachida
Articoli - Società

di Bakarat Rabie

La signora Rachida giunse in Italia nell’aprile del 2002. Aveva viaggiato per tre giorni su un pullman che la portò attraversando la Spagna e la Francia dalle coste del Marocco fino alla città di Torino: aveva con sé un po’ di vestiti, un sacchetto di erbe medicinali e quasi 70 euro. Come tanti nuovi arrivati si sistemò a Porta Palazzo davanti ai bagni pubblici della stazione dei pullman di via Fiochetto. In pochi giorni diventò uno straccio umano finché venne notata da una sua paesana, che subaffitta i posti letto in via Cottolengo, che le diede un riparo sistemandola in una soffitta minuscola dove si possono toccare le tegole del tetto e scorgere le stelle di notte. Si accordarono su un affitto che Rachida avrebbe dovuto pagare alla fine di ogni mese dando in pegno il suo passaporto. 

Era nata sessanta anni fa in un paesino nel centro del Marocco vicino agli altipiani di Chelia, terra di una rara e struggente bellezza dove le montagne rosse di Atlas si alzano brulle e impetuose come giganteschi minareti in un cielo azzurro cobalto, sfuggente, irraggiungibile e infinito, e dove all’inizio del secolo un centinaio di uomini temerari guidati da un capo leggendario, El Raizuri, tennero testa per trent’anni ad un esercito franco spagnolo in una resurrezione epica e feroce senza che gli invasori riuscissero a calpestare un lembo di quelle cime, facendo di quei luoghi i posti più amati e più mitici nella storia del Marocco.    

I primi tempi furono difficili per una donna di quell’età. Ma lei non cadde nel delirio e seppe resistere alla vita con tenacia e ostinazione e con i giorni prese confidenza con il circondario e con gli inquilini dello stabile e alla seconda settimana, spinta dall’istinto della sopravvivenza, era al mercato di Porta Palazzo a vendere menta e tè verde. Poco tempo dopo decise di ampliare la sua attività e cominciò a vendere dell’ottimo pane sfornato da lei ai tanti nord africani della zona. Il primo affitto riuscì a pagarlo senza troppi affanni.

Al mercato conobbe una sua connazionale di nome Nezha che vedeva spesso oziare senza meta tra le bancarelle e della quale nonostante la giovane età diventò un’intima amica. Una ragazza dagli occhi perennemente lucidi dalla quantità di lacrime che versava in continuazione per un ragazzo che di lei non ne voleva sapere. “Piango d’amore tutte le notti ma lui ha il cuore crudele” disse.

“Gli interessa solo il mio cuscus speziato che ogni sabato gli preparo con tanto affetto”. Rachida l’invitò a casa e con tenerezza e le tirò su il morale, era abituata a tale spettacolo, aveva già visto nella sua esistenza tante di quelle donne velate dal viso duro e dal cuore spezzato. “Non ti preoccupare mia cara figliola a tutto c’è soluzione” disse “gli uomini sono poca cosa per sprecare un pianto’’. Chiese  la foto di Abid e la bruciò in un piatto, raccolse con movenze rituali la cenere e la mischiò con una polvere scura che assomigliava al caffé tostato e avvolse la miscela in un pezzo di stoffa e la legò con un nodo ermetico e ci lesse sopra tre formule nella lingua dei savi erranti del deserto, incomprensibile ad un orecchio umano, e infine come sigillo sputò sul fagotto due volte e lo allungò soddisfatta alla ragazza. “È un sortilegio d’amore che scioglie le pietre” disse, “devi spruzzare il contenuto nel cibo che mangia e sui suoi vestiti”. La ragazza ubbidì spasimante e andò a trovarlo al lavoro, vendeva verdure al mercato di Porta Palazzo. Nezha teneva in mano il solito baracchino fumante del cuscus, ma invece delle spezie e del peperoncino l’aveva riempito della polvere magica di Rachida. Lui divorò come un lupo mannaro tutto quello che gli aveva portato, finito il pranzo la cacciò in malo modo. “Ci vediamo qua sabato prossimo” disse e tornò al banco a servire i suoi clienti. Lei lo lasciò fare e a tradimento innaffiò i suoi vestiti di quella sostanza farinosa.  Abid tornò a casa senza che l’amuleto gli avesse fatto effetto e come al solito cenò e si addormentò guardando la televisione. Ma alle tre del mattino si svegliò di soprassalto in una stanza satura di profumi di prati verdi e di campi di mandorle fiorite e il volto di Nezha stampato nei suoi occhi e ricamato nella sua anima, per liberarsi da quella visione si scrollò energicamente la testa e si lavò la faccia con acqua gelida presa direttamente dal frigo, ma non cambiò nulla, gli occhi ammalianti e le ciglia affilate di quella ragazza erano dappertutto, sui muri, sulla porta, sul cuscino, li trovò perfino nel lavandino. Si recò di corsa in via Bonelli, dalla strada chiamò Nezha ad alta voce e lei scese a capo scoperto ,spaventata, con addosso una orribile vestaglia rosso sangue, comprata con pochi spiccioli ad un mercatino dell’usato.

Si era completamente dimenticata della fattura. 

“Tu sei la mia luna piena e il mio sole sorgente” esclamò Abid, “tu sei le lussureggianti colline di Agadir e il dolce silenzio di Tangeri, Nezha tu sei la mia malattia e la mia guarigione, il mio deserto e la mia oasi, ti amo più del Marocco, sposami o morirò d’amore ”. 

Lei rimase ammutolita da tanta abbondanza, lo fissò incredula senza sillabare una frase, e nel silenzio della notte centellinò estasiata un sorso della sua sottomissione e lo trovò squisito e godette a piene mani di quegli attimi di trionfo e come un lampo colse la palla al balzo e non si fece ripetere due volte l’offerta: il venerdì dopo lo portò incatenato al suo cuore davanti all’imam di Torino e si unirono per l’eternità con rito islamico nella moschea di corso Giulio Cesare. 

In breve tempo si seppe nella comunità araba dell’esistenza di Rachida e dei suoi poteri soprannaturali e che era una kahina, ‘’veggente, maga’’. Da allora fu un pellegrinaggio incessante, giornalmente bussavano alla sua porta persone con i più svariati problemi, risolse molte questioni di malocchio, fece fatture a persone accompagnate dall’invidia, fatture a commercianti per avere fortuna nel lavoro, si occupò di tante donne sterili facendo loro avere delle gravidanze maestose contro tutti i pareri della scienza. guarì tanti malati psichiatrici sconfiggendo per sempre i loro ginni  ‘spiriti vaganti’, diede sollievo a molta gente con gravi sintomi di nostalgia, ma il suo capolavoro in assoluto fu la cacciata del demonio in persona dalla casa di una famiglia tunisina dove aveva preso dimora e molestava e terrorizzava la loro adolescente figlia. 

Non aveva un tariffario e non chiedeva soldi, accettava il denaro quando i suoi clienti di loro spontanea volontà glielo offrivano. Fece questo lavoro a tempo pieno e le sue economie ebbero un rialzo continuo e decise di non impastare più il pane e non vendere più né la menta né il tè verde.

Poi arrivò inesorabile l’autunno e come sempre si insinuò nelle case e nel cuore delle persone colmandoli di solitudine. Con le prime piogge la casa di Rachida subì un tracollo diventando un autentico lago, e lei rimediò a questa situazione sistemando sul pavimento un’armata di bacinelle e pentole per raccogliere il diluvio che filtrava dalle crepe del tetto. 

A novembre il freddo e l’umidità straziarono Rachida e le sue ossa cominciarono a scricchiolare, e per giorni uscì dai suoi polmoni una tosse che assomigliava ad un rantolo di un animale morente. Decise di curarsi e si presentò alla “Camminare Insieme”: era una donna minuta con un aspetto composto e severo, di altezza media, dai gesti lenti e misurati e con una camminata leggera come se da un momento all’altro dovesse spiccare il volo, le mani tatuate a lutto dall’età di dieci anni, da quando aveva perso entrambi i genitori. Fu visitata e dalla dott.ssa Moschini che la trattò con tatto e gentilezza. Si scoprì inoltre dalla sua cartella clinica che era una donna sola al mondo e che non si era mai sposata, senza parenti e senza figli e fu orfana da sempre cresciuta nel suo pae-sino dall’intera comunità. 

Riuscì a resistere alla stagione invernale per quattro anni di seguito a scapito della sua salute che degenerò in modo vistoso, i dolori della schiena aumentarono, le giunture sempre più rumorose, e il  respiro diventò come un vespaio. I suoi conoscenti le consigliarono di curarsi con i suoi poteri ma lei negò con decisione, “è permesso usarle solo per gli altri ma io sono immune alle fatture, posso solo individuare la causa dei miei acciacchi” e incolpò subito la puzzolente aria di Torino e le sue strade piene d’ombre.

Il 23 febbraio del 2006 Rachida usci come al solito a mezzogiorno a fare la spesa al mercato, un pioggia gelida le bagnò l’abito, guardò via Cottolengo, era di un cupo avvilente con i suoi palazzi asfissianti cuciti senza sosta l’uno all’altro sovrastati da un cielo unto, insignificante e senza emozioni. Si ricordò della sua terra e vide in lontananza le pianure che cullavano il suo villaggio e qualche pastore a cavallo ebbro di spazio, che accudisce pigramente nella vastità del luogo alle sue pecore. Le mancò il respiro. “A quest’ora a Chelia c’è il sole” disse rivolta ad un passante. Ritornò velocemente in soffitta, raccolse dentro una valigia un po’ del suo cuore, insieme ai suoi vestiti, qualche ricordo, le sue erbe miracolose e venne nel nostro ambulatorio e chiese un passaggio fino al pullman che parte per il Marocco. 

Sembrava vecchia come il mondo. 

“Torno a casa – disse – l’unica mia cura sono gli altipiani”. Non salutò nessuno, né i suoi pazienti e neanche i vicini di casa, sparì per sempre con le sue magie e i suoi antichi sortilegi, piena di segreti, di misteri e di saggezza.