17 marzo 2011 è la data in cui in Cirenaica è iniziata la guerra civile per togliere il potere a Gheddafi. Tutto questo è avvenuto perché le manifestazioni pacifiche di dissenso venivano attaccate con la forza delle armi da parte della polizia e dell’esercito, fedeli al raiss.
È facile dire, comodamente seduti a casa propria, al sicuro dalle repressioni di un regime violento cosa è giusto fare e cosa non lo è. La violenza non è un mezzo per risolvere i problemi perché porta solo ad altra violenza, ma bisogna porsi una domanda: è giusto rischiare la propria vita per un ideale come la libertà? Molti libici hanno pensato, fino al 17 marzo, che era meglio non rischiarla la propria vita, e infatti hanno cercato di opporsi ad un sistema violento e repressivo, attirando l’attenzione dei paesi europei, dell’America, della Cina e della Russia che hanno fatto finta, all’inizio, di non aver visto nulla. Quando poi gli interessi economici dell’Italia e dell’Europa hanno cominciato a vacillare e i rapporti politici non potevano più essere sostenuti, il resto del mondo ha iniziato a pensare cosa si poteva fare per fermare la violenza tra le due opposte fazioni. Il leader libico di Tripolitania si è sentito minacciato nel suo potere dittatoriale, basato soprattutto sugli interessi economici che lo legano all’Italia e che favoriscono la regione che lui controlla e le aziende italiane, come l’Eni, gestrici del potere economico in Libia. Nei particolari questi interessi sono stati sanciti e ratificati dal trattato italo-libico del 30/08/08 e dalla legge n. 7 del 6 febbraio del 2009. Questo accordo è stato approvato da tutto il Parlamento senza che nessuno (degli italiani esterni alla politica) sapesse bene di cosa si trattasse; si sono conosciute solo alcune parti (come i respingimenti degli immigrati) perché politicamente conveniva, a chi scredita questo governo, mostrare i punti umanamente discutibili. Mi chiedo, cosa avrebbero fatto queste persone se la regione della Cirenaica non si fosse ribellata al potere di Gheddafi ? E la Nato e l’ONU? Sarebbero rimasti personaggi consapevoli e indifferenti alla crisi sociale di quelle persone, che allo stremo si sono messe in gioco in una guerra civile? Per un mese nel silenzio più totale, il nostro governo ha sperato che il raiss vincesse la guerra interna, tornasse al potere massacrando tutti coloro che avevano cercato di cambiare in meglio la loro vita. Mentre albergava nel cuore italiano della politica questa speranza, la Finmeccanica continuava a vendere le armi al governo libico, in nome della serietà professionale di un’azienda tutta italiana che produce strumenti di morte, ha filiali in tutto il mondo e in tutto il mondo le vende, tanto da essere il secondo produttore di armi nel mondo. Quello che sta avvenendo non rispetta l’articolo 6 del trattato, che si propone, per ambo le parti, di rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali; cosa che la Libia non sta facendo con questa guerra civile e l’Italia, dal canto suo, non si prende cura degli amici libici che, aborrendo la violenza, fuggono alla ricerca della pace. Ho sempre un senso di disagio nel parlare della violenza che le persone devono subire dai governi che decidono chi può vivere e in quali condizioni deve farlo; è importante rendersi conto che non ci possono essere pregiudizi quando le persone soffrono e muoiono poiché chi sente più potente di loro sceglie se dovranno vivere oppure no. Il conflitto interno continua, con il furto delle armi da parte dei ribelli nelle caserme dei militari per attaccare e non per difendersi; allo stesso tempo non esiste nessun tentativo diplomatico, da parte dei governi mondiali, a trattare con un dittatore che si finge buon samaritano con le parole, di apparente saggezza, sottoscritte nel trattato di amicizia con l’Italia. Questo trattato all’articolo 8 potrebbe far pensare all’Italia come regista dello sviluppo economico della Libia, visto che si impegna a reperire 5 miliardi di dollari in 20 anni, garantendo 250 milioni di dollari americani l’anno. Questi progetti verranno gestiti dalle aziende italiane che concorderanno con i governi italiano e libico il valore di ciascun progetto. La parte economico finanziaria sarà gestita dal governo italiano. Da un patto come questo ci si dovrebbe aspettare una condizione di benessere della società libica, delle persone che iniziano ad avere dei benefici dai soldi investiti (circa 650 milioni di dollari americani) in tre anni ed invece il popolo libico, o almeno una parte di esso, vuole un nuovo governo, che si preoccupi degli interessi di tutti. La forza porta con sé vittime che non sono né colpevoli né innocenti, ma solo vittime di una guerra che al colmo della disperazione combattono. Non giustifico il loro comportamento mi limito a non giudicarlo perché al di là, delle cose in cui credo, non so cosa farei al loro posto. Non riesco ad accettare l’indifferenza delle persone, che respingono altre persone, come se queste portassero con se chissà quale malattia mortale da diffondere. Vorrei pensare che spaventa l’impotenza di non poterle aiutare considerando le difficoltà che anche non stiamo vivendo e che, una volta superata questa, noi potremmo dare un esempio di collaborazione internazionale che vada oltre gli accordi tra gli stati e i patti di amicizia. Potremmo instaurare un rapporto di amicizia tra le singole persone e fare disobbedienza civile nei confronti di quelle leggi che discriminano gli esseri umani, li utilizzano per scopi economici e politici. Contrasterei con forza questo accordo tra amici dove si prevede che l’Italia realizzi, attraverso aziende italiane con la necessaria esperienza, un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche. Il costo di questa operazione verrà sostenuto per il 50% dall’Italia e per il restante 50% verrà chiesto all’Europa di farsene carico sulla base degli accordi presi tra la Libia e la Commissione Europea. Contrasterei con forza, ma senza l’uso della violenza, situazioni come questa che degradano l’esistenza di un essere umano. |