“La violenza contro le donne e le ragazze continua con la stessa intensità in ogni continente, Paese e cultura. Questa impone un devastante dazio sulla vita delle donne, sulle loro famiglie e sull’intera società. La maggior parte delle società proibiscono questo genere di violenza – in realtà questa è ancora troppo spesso coperta o tacitamente condonata.” (Ban Ki-Moon, Segretario Generale delle Nazioni Unite, 8 marzo 2007).
Le Nazioni Unite hanno istituito, nel 1999, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne. Il 25 novembre di ogni anno, in tutto il mondo, si celebra questa giornata scelta in memoria dell’assassinio delle sorelle Mirabal, attiviste contro la dittatura della Repubblica Dominicana, che ha avuto luogo il 25 novembre di cinquant’anni fa. La violenza contro le donne di ogni età è una delle violazioni dei diritti umani più diffuse al mondo. Si stima che una donna su tre subisca maltrattamenti all’interno della propria famiglia, in proporzioni minori o maggiori a seconda del paese ma senza eccezione alcuna. Una donna su tre sarà violentata, aggredita, molestata verbalmente, forzata ad avere contatti intimi o relazioni sessuali. Non basta: ad oggi, più di 55 milioni di bambine e ragazze in tutto il mondo non frequentano alcuna scuola: la discriminazione e la violenza di cui sono vittime nega loro l’accesso all’istruzione e le confina, molto facilmente, a una vita più debole e, spesso, di completa dipendenza economica dalla famiglia di origine o dal marito. La violenza sulle donne non solo ne devasta le esistenze, ma genera modelli difficilmente contestabili anche per i bambini e le bambine, testimoni delle violenze, crea fratture nelle comunità e aumenta in maniera drammatica la crisi generale in cui la nostra società (anche la nostra “civile” società occidentale). Sì, perché la violenza non costa soltanto in termini affettivi e fisici, ma anche in termini di assistenza sanitaria, di ridotta produttività che, di conseguenze, aumenta il rischio di licenziamento e la discriminazione sul lavoro a cui tutt’oggi le donne sono esposte. Secondo le statistiche dell’OMS, del 2005, la violenza è una delle maggiori cause di morte e disabilità nelle donne di età compresa tra i 15 e i 44 anni. I fattori di rischio selezionati per le donne in questa fascia d’età, per la Banca Mondiale sono lo stupro e la violenza domestica, che hanno un tasso d’incidenza più alto rispetto a guerre, malaria, incidenti stradali e cancro. E a proposito di salute, le donne che hanno subito violenze sono esposte a un alto rischio di infezione da HIV: un sondaggio tra più di 1.300 sudafricane indica che le donne picchiate dai genitori hanno il 48% di possibilità in più di venire infettate dall’HIV rispetto a quelle che non sono lo sono state. Le statistiche non devono, però, trarre in inganno: in alcuni casi sembra che paesi che sembrano adottare politiche più egualitarie registrino un numero superiore di crimini sessuali; talvolta, a causa della limitata disponibilità di servizi, della paura di essere stigmatizzate o della paura di ritorsioni, le donne non chiedono risarcimenti e assistenza. In mancanza di questi dati, che permettono di ricostruire la mappa della violenza, si ha un quadro ampiamente distorto e incompleto. Spostandoci dal panorama internazionale a quello italiano: nel 2006, secondo i dati Istat, le donne italiane vittime di violenza sono state 1 milione e 150 mila pari al 5,4% del totale. Il 3,5% ha subito violenza sessuale, il 2,7% violenza fisica; 74 mila donne (0,3%) hanno subito stupri o tentativi di stupri. Nella maggior parte dei casi la violenza sessuale è stata opera del partner (69,7%) o di un conoscente (17,4%), mentre nel 6,2% dei casi di uno sconosciuto. Sono 1 milione e 400 mila le ragazze che hanno subito violenza sessuale prima di aver compiuto 16 anni. Nel 2009 in Italia sono stati denunciati oltre un milione di casi di violenza su donne, di ogni età, provenienza e religione. La violenza fisica, sessuale e psicologica subita dalle donne è un fenomeno quotidiano ed è endemico sia nei paesi industrializzati, sia nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. è un fenomeno così diffuso che le vittime e i loro aggressori appartengono a tutti i ceti sociali o culturali e a tutte le fasce di reddito, a tutte le età, di qualsiasi credo politico o religioso. Questi dati ci dicono che, a dispetto del bombardamento televisivo che descrive un mondo diventato pericoloso per via degli immigrati stupratori extracomunitari e degli orchi cattivi e ignoranti che “glielo si legge in faccia”, in realtà la violenza contro le donne viene perpetrata per lo più da mariti, compagni e familiari stretti. Quali politiche vengono attuate per rispondere al problema? Nel 1996, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito il Fondo delle Nazioni Unite in supporto delle azioni per eliminare la violenza contro le donne a livello nazionale, locale e regionale. In Italia, Centri antiviolenza e Case delle donne sono attive sin dagli anni ’70 contro la violenza sulle donne e dal 2005 hanno iniziato a celebrare la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne. Ed è intorno alla celebrazione del 2010 che in Piemonte, a Torino, viene approvata una delibera che ci riporta indietro nel tempo e che apre le porte alla proposta di legge n. 160 del 14 settembre 2011 dal titolo “Norme e criteri per la programmazione, gestione e controllo dei Servizi consultoriali.”. La delibera prevedeva l’ingresso delle associazioni pro-vita nei consultori; diversi soggetti (Casa delle Donne, associazioni femministe, alcuni politici) si sono mobilitate e hanno fatto ricorso al Tar. Il ricorso viene vinto e la delibera viene bocciata in quanto anticostituzionale. Quattro giorni dopo viene proposta una nuova versione, ancora più aspra della precedente e con tratti denunciati da numerosi esponenti politici, inclusi i cattolici, specialmente per quanto riguarda il criterio di selezione della “autocertificazione antiabortista” e per l’esigenza di un maggiore dibattito intorno a un tema delicato come quello trattato dal provvedimento. Il progetto di legge appare fortemente discriminatorio, si cura in maniera ossessiva della tutela del matrimonio e della vita sin dal concepimento, mentre quasi non nomina la donna, se non come un soggetto passivo e influenzabile. Assegna, inoltre, un enorme potere ai volontari delle associazioni antiabortiste (es. hanno la facoltà di allontanare i famigliari e gli amici, hanno la facoltà in via esclusiva di fornire progetti educativi ai figli delle madri che decidano di rinunciare all’aborto, devono essere consultati nonostante l’impegnativa del medico curante e così via). “Se l’aborto fosse solo una ‘questione di donne’”, scrive un docente di bioetica dell’Università di Torino, il prof. Mori, nel libro “Aborto e morale”, “sarebbe ormai tranquillamente accettato, […] nessuno ormai parla di vietarlo penalmente, come dovrebbe essere se si trattasse davvero di omicidio. […] Se il controllo della propria fertilità è un diritto civile, allora si deve riconoscere che anche l’aborto è un diritto e non una ‘concessione’ accordata alla donna per rimediare presunte intemperanze sessuali”. Ora: il 25 novembre si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne. Curiosamente, il 19 novembre è stato scelto come Giornata internazionale dell’Uomo. Al di là delle convinzioni religiose o etiche di ciascuno di noi, se crediamo nella costruzione di un mondo nonviolento e non discriminatorio è bene che affrontiamo a fondo la questione femminile perché riguarda tutti noi. La lotta per l’eliminazione della violenza sulle donne – e, per estensione, sugli uomini – non dovrebbe essere vista come la lotta per la difesa di un diritto conquistato ma di un diritto fondamentale, perché di questo stiamo parlando. Ci riguardava in passato e ci riguarda oggi più che mai, affinché nuove leggi discriminatorie e repressive non possano unirsi a quel lungo elenco di attacchi ai diritti fondamentali che, giorno dopo giorno, siamo costretti a subire. |