Rifugiati
Diritti violati
Scritto da Anna Beltrami   
Il piano di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo provenienti dai paesi del nord Africa è nato ormai due anni fa, nel febbraio del 2011, quando è stato dichiarato lo stato di emergenza in seguito all’aumento del flusso di immigrati provenienti dal Maghreb e dalla Libia.

I rifugiati erano stati suddivisi in numero “proporzionale alla popolazione di ogni regione” e in Piemonte

ne sono stati ospitati circa 4000. Gli aspetti più contraddittori e problematici del piano di accoglienza, frutto di una negligenza che ha del premeditato, erano già stati resi noti da “Non solo asilo”, un coordinamento di associazioni che si occupa di rifugiati politici tra cui Amnesty International, il Gruppo Abele, l’Ufficio Pastorale Migranti. In una lettera aperta alle istituzioni datata 21 giugno 2011 venivano denunciati gli aspetti più preoccupanti del piano, tra cui l’insufficienza delle risorse, sufficienti per risolvere momentaneamente il problema di vitto e alloggio ma non  per organizzare attività che facilitassero il reale inserimento sociale dei rifugiati, e la mancanza nel piano del riconoscimento della residenza che rende problematico l’accesso ai servizi territoriali e di welfare. Parole cadute nel vuoto, come oggi le stesse associazioni di Non Solo Asilo ricordano amaramente nel comunicato stampa di fine febbraio intitolato non a caso “Avremmo voluto sbagliarci!”.

Nel concreto, il piano emergenza è terminato con un’ordinanza risalente al 28 dicembre del 2012. Dopo una breve proroga, la cessazione definitiva è arrivata con un decreto del presidente Monti datato 28 febbraio 2013. I campi di accoglienza, in molti casi strutture di tutt’altro tipo allestite all’ultimo momento. Questo decreto riflette perfettamente l’atteggiamento delle istituzioni, non solo italiane ma anche e soprattutto europee, nei confronti dell’emergenza nord-africana. Tra le ragioni della chiusura del piano emergenza “il consolidamento del processo democratico in corso in Tunisia”, un’affermazione che non può certo oggi essere considerata credibile, date le tensioni che agitano il paese, l’uccisione a inizio febbraio di Chokri Belaid (leader di uno dei principali partiti di opposizione), e le difficoltà legate alla stesura di una nuova costituzione.

Entro fine marzo i rifugiati devono scegliere tra il rimpratrio nel paese di origine o di provenienza oppure la conversione del permesso umanitario in permesso di soggiorno per motivi di studio, di lavoro o familiari. Se non si presentano all’appello, verranno considerati clandestini e quindi espulsi. Attualmente, nel nostro territorio, sono stati offerti ai rifugiati 500 euro di “buonuscita”, un’offerta che è stata in molti casi presentata come scelta obbligatoria e che ha assunto i caratteri del ricatto visto che non è stata offerta alcuna alternativa. A questo si aggiunge il fatto che molti hanno firmato senza avere a disposizione una traduzione di quanto scritto. Non è ben chiaro come questi permessi umanitari possano essere convertiti in permessi di soggiorno per lavoro e per studio, essendo estremamente difficile sia l’inserimento lavorativo che quello scolastico. Un altro problema riguarda la difficoltà, in seguito alla chiusura dei campi, di informare i rifugiati, ora dispersi, riguardo alle scadenze. L’11 marzo in piazza Castello c’è stata un manifestazione e una rappresentanza del Collettivo degli immigrati autoorganizzati ha incontrato alcuni  rappresentanti della prefettura per esporre problemi e perplessità. Nonostante l’apparente disponibilità, al momento non è arrivata alcuna proposta concreta. E queste persone, costrette a “ingrossare le file della marginalità”, come ricordava Laura Boldrini in un’intervista, private della dignità, persino di una casa, “dove sono finite?”, chiedo ad un’attivista del Collettivo, testimone di alcuni degli aspetti più assurdi di questa vicenda.

“Se vedi un ragazzo straniero con lo zaino o la valigia, fermo ad una fermata dell’autobus, quello molto probabilmente è uno dei rifugiati”.