Siria: perché NOI siamo colpevoli
Diritti violati
Scritto da Paola Beltrami   
Il 25 marzo, in un articolo sul Guardian, Desmond Tutu, il famoso arcivescovo che guidò la Commissione di Verità e Riconciliazione Sudafricana, ha affermato parlando della situazione in Siria: “Per ogni secondo che passa nell’indifferenza verso le persone intrappolate nello scontro armato, si incrinano i nostri standard morali”.
Questa affermazione mi sembra un buon punto di partenza per parlare della situazione in Siria. Partire da una questione “morale” significa infatti concentrarsi non solo su quello che “succede” in Siria, ma anche su quello che succede dentro di noi, sulle conseguenze del nostro sguardo e del nostro “non essere siriani” (essere Altri, forse troppo Altri) sui milioni di siriani che si trovano in “trappola”.

Chi scrive non è un giornalista. Chi scrive non è un operatore di qualche organizzazione internazionale. Chi scrive è una persona qualsiasi.

Per iniziare un articolo sulla situazione in Siria è necessario chiarire questo punto fin dall’inizio.

Non si tratta di posizionarsi contro i giornalisti o contro gli operatori delle organizzazioni internazionali, ma di situare il mio personale punto di vista. Guardare alla Siria da questa collocazione, infatti, sta diventando una delle imprese più complicate e insidiose negli ultimi mesi.

Ho cominciato a seguire la situazione siriana nel marzo del 2011 quando, dopo le grandi rivolte tunisina, egiziana, yemenita, bahrenita e di lì a poco libica, anche in Siria, nella città meridionale di Dar’a, è iniziata una protesta popolare contro il regime di Bashar al-Assad.

Come molti si ricorderanno, la scintilla della protesta è stato l’arresto, la tortura e la sparizione di due ragazzini adolescenti che si erano permessi di scrivere su un muro alcune frasi contro il regime. Di fronte alla richiesta dei genitori di rivedere i propri figli, gli agenti locali avrebbero risposto di pensare a farne altri oppure di portargli direttamente le madri che ci avrebbero pensato loro.

Uno sputo sulla dignità umana che in Siria era ormai normale quotidianità ma che parte dei siriani ha deciso di non accettare più.

Inutile ricordare come cerca di fare da ormai due anni Lorenzo Trombetta, che la rivolta siriana è iniziata ed è continuata per diversi mesi come rivolta pacifica e trasversale nonostante le profonde divisioni che attraversano la società siriana e che il regime di Bashar al-Assad non ha smesso di fomentare.

Nel frattempo l’immobilismo della comunità internazionale, bloccata dal veto cinese e soprattutto russo, la repressione sempre più sanguinosa da parte del regime e il tramutarsi della resistenza in Siria in vera e propria guerra civile (con tanto di combattenti islamisti infiltrati dall’esterno del paese) ha portato a una situazione che per molti rievoca scenari balcanici. Una popolazione assediata e presa di mira dai cecchini e veri e propri massacri collettivi che sembrano voler distruggere in particolare la comunità sunnita del paese.

Se infatti la rivolta siriana aveva inizialmente l’intento di unire i siriani contro Bashar (come dimenticare che gli arresti e le sparizioni erano anche a loro volta trasversali), il regime ha cercato di sfruttare le divisioni etniche e confessionali su cui si fonda il potere degli Assad (che si identifica con la minoranza alaouita) per rendere sempre più efficace la repressione.

Non siamo solo noi a non sapere cosa accade in Siria; sono prima di tutto i siriani che, in particolare nella capitale Damasco, sono stati per mesi bombardati dalle versioni ufficiali della televisione di Stato che accusava i manifestanti nel resto del paese di essere terroristi stranieri (con chiari riferimenti ad Al-Qaida).

La strategia del regime siriano è stata quella di coltivare la paura nelle diverse comunità del paese affinché tutti avessero paura gli uni degli altri e si trovassero così costretti ad aggrapparsi all’ancora di salvezza del regime.

Gli alawiti, comunità religiosa di cui fa parte la famiglia al-Assad e tutti i dirigenti dell’esercito e del sistema di sicurezza siriano, sono stati costretti a credere che se non avessero sostenuto il regime sarebbero finiti vittime di una rappresaglia genocidiaria da parte della comunità sunnita, che è appunto la comunità più duramente repressa dal regime.

Nei confronti dei cristiani si è fatta riecheggiare l’ipotesi dell’istituzione di un possibile stato islamico sunnita nel momento in cui la rivoluzione avesse fatto cadere il regime.

I curdi, che popolano la regione più a nord del paese, da parte loro hanno utilizzato la rivolta al fine di istituire una regione semi autonoma aperta verso il kurdistan iracheno da cui sembra ricevano aiuti; un’occasione insomma per disfarsi della discriminazione storica (il regime non li riconosceva come cittadini siriani pur vivendo sul territorio siriano) di cui sono stati vittime.

Per finire, la comunità sunnita, maggioritaria nel paese e vittima di repressioni feroci già da parte del padre di Bashar, Hafez al-Assad (si ricordi la strage di Hama del 1982), si trova di fatto sempre più isolata ed è proprio nei suoi confronti che le forze di al-Assad scatenano le più grandi azioni repressive. La strategia in questo senso sembra quella di una distruzione totale della comunità sunnita nel paese attraverso in particolare i bombardamenti aerei di città sunnite.

Questo quadro non è assolutamente esaustivo e non considera come di fatto la società siriana continui a mettere in atto forme di solidarietà e di resistenza che possono andare al di là dell’appartenenza a una comunità piuttosto che a un’altra.

Tuttavia la strategia del regime è proprio quella di distruggere qualsiasi possibilità di resistenza globale della popolazione.

Questa situazione come è noto, ha portato negli ultimi due anni a un numero di vittime pari almeno a 70.000 persone e alla fuga di milioni di persone (attualmente 1,1 milioni, di cui ¾ sono donne e bambini, disperse tra Giordania, Turchia, Libano e Iraq). Questi numeri sono in parte riconducibili all’uso indiscriminato da parte del regime dell’aviazione e di bombe a grappolo (teoricamente vietate a livello internazionale) oltre che di missili scud negli ultimi mesi. I bombardamenti non hanno risparmiato nemmeno il campo profughi palestinese di Yarmouk. Non è ancora stato verificato l’uso di armi chimiche anche se il 27 marzo il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-Moon, ha nominato lo scienziato svedese Ake Sellstrom per svolgere un’indagine su questo punto, dopo che le denunce sull’uso di queste armi sono arrivate da parte dei ribelli nei confronti delle forze governative (anche se accuse simili sono state dirette anche ai ribelli). Non è inoltre possibile avere il numero esatto delle persone che sono state costrette a lasciare le loro case in Siria e che, non potendo raggiungere i paesi circostanti, si spostano all’interno del paese alla ricerca di un riparo (3,5 milioni secondo le stime delle Nazioni Unite).

L’immobilismo della comunità internazionale non ha permesso nemmeno di riuscire a creare corridoi umanitari che permettessero di portare aiuti alla popolazione allo stremo. L’Alto Commissario per i Rifugiati, Antonio Guterres, ha recentemente denunciato l’uccisione di molti  camionisti che lavoravano per le Nazioni Unite al fine di portare aiuti alla popolazione siriana.

Le poche organizzazioni che riescono a operare in Siria (ufficialmente solo la Mezzaluna Rossa è stata autorizzata) si trovano quindi a far fronte a una situazione difficilissima nella quale gli stessi medici siriani sono stati vittime di intimidazioni e di una repressione specifica.

Mentre gli scontri continuano all’interno del paese e l’opposizione siriana all’estero cerca di ricompattarsi subendo tuttavia le pressioni e le influenze della realpolitik, la popolazione siriana perde ogni giorno in dignità e diritti. L’indifferenza a cui faceva riferimento Desmond Tutu è carica di responsabilità. Il cinismo, alimentato paradossalmente da un vittimismo da crisi economica, ci chiude gli occhi di fronte a migliaia di vite distrutte e all’orrore che ogni giorno i siriani sono costretti a subire. Questo cinismo è ancora più colpevole nel momento in cui qualcosa oggi si può fare. Voglio quindi concludere questo articolo lasciando alcuni riferimenti per tutti coloro che volessero contribuire ad aiutare e a renderci tutti un po’ meno colpevoli della distruzione della vita di milioni di persone.

Se vuoi fare qualcosa puoi fare una donazione tramite versamento o partecipando alla raccolta di medicinali e generi vari attraverso:

 


Medici Senza Frontiere (sul sito internet sono segnalate le coordinate per fare una donazione);


Time4Life (pagina facebook): si tratta di un’associazione di volontari con sede a Modena che organizza il trasporto di medicinali e altri generi verso la zona del paese sotto il controllo dei ribelli. Una raccolta è anche organizzata a Torino (per info vedere la pagina Facebook di Time4Life);


UNHCR, campagna “Emergenza Siria”, tramite bonifico bancario intestato a Unhcr presso la BNL all’IBAN IT 84 R 0100503231 000000211000, o tramite c/c postale n. 298000 sempre intestato a Unhcr, causale: Emergenza Siria. O anche tramite carta di credito chiamando il numero verde 800 298 000;


Un Ponte per..: si tratta di una ONG italiana con vari sedi in Medio Oriente e che si sta mobilitando in particolare in Giordania per fornire un sostegno ai profughi siriani nei campi ma soprattutto a quelli che vivono all’interno delle città giordane e che quindi non hanno il sostegno delle organizzazioni internazionali come
l’UNHCR.

 

Informazioni su altre iniziative, tutte parimenti importanti sono disponibili su www.sirialibano.com e http://ninofezzacinereporter.blogspot.it.

Invito chiunque fosse a conoscenza di iniziative anche locali a contattare la redazione di Conexion alla mail Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. : saremo felici di pubblicizzare queste iniziative nei prossimi numeri.

Proposta: “Siria: quanti morti servono per fare un titolo
su un giornale?”

Invia una mail ai giornali italiani chiedendo perché non parlano della Siria.

Facciamo pressione sui media per costringerli a tenerci informati: anche se è difficile non vuol dire che non si possa fare! Proprio perché la situazione è molto complessa, noi lettori abbiamo bisogno di una copertura fatta da professionisti e non dai primi venuti su youtube o su facebook.