Eravamo arrivati nella valle da qualche giorno – racconta Marco – Il pericolo si fiutava nell’aria, ma le disposizioni erano già molto chiare: aspettare, presidiare la zona, non partire per primi e avere in ogni caso reazioni non aggressive. L’ordine pubblico, dopo il G8 di Genova dieci anni fa e l’istituzione della scuola di Nettuno (voluta dal capo della Polizia, Antonio Manganelli), dovrebbe essere sempre come lo descrive Marco. Eppure qualche schema, domenica, sembra essere saltato: La prima cosa da presidiare sono le vie d’accesso – prosegue il poliziotto – Se se ne lascia una libera e favorevole a chi deve attaccare, è chiaro che l’attacco arriverà proprio da lì. E così è stato. Noi abbiamo atteso per ore, poi ci hanno fatti uscire allo scoperto su un unico spiazzo: ci siamo trovati di fronte ai manifestanti scesi dalla montagna che ci tiravano di tutto. Una strategia che è costata alle forze dell’ordine, e quindi allo Stato, oltre duecento feriti. Sarebbe bastato andare indietro e tenere il fronte coperto: non sarebbero entrati, oppure li avremmo presi tutti. Invece ci hanno esposto e i moti vi sono chiari da comprendere. La polizia fa quello che le si chiede di fare, le direttive vengono da molto più in alto. Marco non è certo nuovo alle manifestazioni e sa bene quali rischi si corrono: I manifestanti sono lì e ce l’hanno con noi, a prescindere dal colore politico che rappresentano. Ti aspetti anche la violenza, loro fanno la loro parte e noi la nostra. Quello che non ti aspetti è che ci sia la volontà politica di usare noi come merce di scambio: facciamo massacrare i poliziotti così l’opinione pubblica è dalla nostra parte. Secondo questa logica poteva andare addirittura peggio: È andata bene infatti – racconta ancora Marco – ma ora è tempo di interrogarsi: se ci sono duecento feriti vuol dire che qualcosa non ha funzionato. O qualcuno ha sbagliato dal punto di vista operativo, oppure ha voluto tutto questo. Francamente è difficile pensare alla prima ipotesi: volendo, avremmo potuto isolare tutti i violenti. Già, i violenti: si è parlato di black bloc, ma il popolo No Tav ne ha smentito la presenza. C’erano frange non italiane, ma la maggior parte erano facce conosciute. Il bacino sono i centri sociali, personaggi abbastanza noti. Poiché sono stati impiegati reparti e tecnologie specifiche, erano tutti perfettamente al corrente di quello che sarebbe successo. Lo sapevamo persino noi che non avremmo dovuto saperlo. Marco non è preoccupato, la sua famiglia lo è: Spero che non sia stata la prova generale per quello che potrebbe succedere tra pochi giorni a Genova, in occasione del decennale del G8. Del resto, proprio dopo la Val di Susa, avendo il favore dell’opinione pubblica, l’atteggiamento e le direttive saranno diverse. Intanto il 5 luglio si è riunita la commissione italo-francese che avrebbe dovuto ridiscutere la quota dei finanziamenti. L’unico parere favorevole, invece, è arrivato per la realizzazione della tratta in due fasi. Ciò significa che, per la parte da Susa a Torino, è tutto rinviato a dopo il 2023.
Segnalazione ricevuta da FabioNews (www.fabionews.info) da parte di una lettrice in merito alla testimonianza apparsa sul Fatto del 7 luglio 2011.
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