Multikulturalni čovjek izgrađivat će svijet Stampa
Articoli - Viaggi
Come sono arrivata qui? Come si fa ad andare in vacanza in Bosnia? Si fa, si fa. Le ragioni di questo viaggio vanno, forse, indietro nella mia infanzia. Brandelli d’autunno 1992. Un giornalista, davanti a quello che sarebbe poi diventato il famoso Holiday Inn, quell’hotel giallo, parlava di una guerra. Dev’essere lontana. Una guerra è sempre lontana, no? Poi – flash forward. Un altro scatto di me. Gennaio 2011. Leggo “Venuto al mondo” di Margaret Mazzantini.

 

è deciso: voglio vedere la Bosnia. A marzo 2011 riesco ad organizzare una breve permanenza in questa nazione. Di seguito, alcuni attimi di quello che rimane tra i più intensi, tragici e luminosi vagabondaggi della mia vita.

Dal blog di Vanessa Marenco

L’uomo multiculturale costruirà il mondo: questa la frase che si legge in TrgOslobodenja, Piazza della Liberazione a Sarajevo. La statua, lì in mezzo, è una figura stilizzata di un essere umano che rompe le barriere di un cerchio. Gruppetti di anziani litigano, mentre utilizzano l’intera piazza come una gigantesca scacchiera. Eccolo, l’inizio della mia Bosnia. Un mondo derivante da diverse radici e composto da elementi così contrastanti: un’idea possibile.

è facile camminare per Sarajevo. Passeggiando, sfiori subito le sue “rose”. No, non fiori ma colpi di mortaio riempiti di pittura color carne per marcare la detonazione di persone e vite in giro per la città.

Le Rose mi portano alla Moschea dell’Imperatore. E lì, succede la magia. Una voce ti chiede, a brucia pelo, bam! “Vuoi vederla dentro?”. E prima che tu possa chiederti cosa “Cos’è che voglio vedere dentro?”, lui, il muezzin, ti ha già acchiappata per mano, e davanti a te, ora, la qiblah, che indica la direzione verso della Mecca, i tappeti per le preghiere, il minbar, il pulpito in legno decorato, e poi quel piccolo ingresso per le scale che portano sulla cima del minareto. “Se torni domani, ti faccio salire”, ti dice il muezzin sorridendo, in un inglese arrampicato.

E tu torni, il giorno dopo: non dimenticherò mai la vista dal minareto. I tetti di quella Gerusalemme d’Europa, l’odore di ćevapi, la nebbia che s’intreccia con il Cimitero Ebraico.

Qualche giorno dopo arrivo a Mostar in treno nel momento in cui la notte non è più notte, ed il giorno non è ancora giorno. Come per invenzione letteraria, uscendo dalla stazione accolgo il richiamo alla preghiera. Io, che di preghiere, mie, vere, non ne ho.

Mostar era citata nei libri di storia per lo Stari Most, il Vecchio Ponte.

Chi di noi è abbastanza grande, chiuda gli occhi. Rivedrà la bruttura di quei colpi di mortaio che lo fanno sprofondare, disperato, il 9 novembre 1993, quattro anni esatti dopo il crollo del Muro a Berlino. Quando distruggiamo costruzioni come quel ponte sulla Neretva, insostituibili ed incomparabili, tutto il mondo è in perdita. Appoggiandomi ai caseggiati frazionati dai colpi di mortaio e dalle pallottole, capisco che quello che vivono gli uomini, lo vivono anche le loro opere. L’impulso alla guerra è inspiegabile e lo è stato dall’inizio del mondo.

Scaccio la malinconia. Penso che le opere più belle siano quelle che sono utili a tutti, come questo ponte.

Sorrido perché sono certa che da sempre ci sia anche un’altra spinta nell’uomo, ovvero quella di “attraversare”. Di vedere la fine. Di vedere dove ancora tu non sei. Di avvicinarsi. Di andare avanti e perdonare. Di sperare. L’ultimo ricordo che ho di Mostar è rappresentato da due ragazzine che ridono sedute sulle rive della Neretva, sotto il ponte ricostruito.

Dici che il fiume trova la via del mare.

E come fiume, giungerai a me.

Oltre i confini, e le terre assetate.

Dici che come fiume, l’amore giungerà.

Gli uomini passano col tempo. La bontà, però, ritorna.