Ti azzeriamo i peccati Stampa
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I miei compagni di viaggio stanno acquistando dei bracciali in corda con le mani di Fatima, pochi metri più in là. Io, invece, sono immobile, in una piazzetta di una delle città più sante al mondo, con due ragazzini che mi fanno roteare un pennuto rintronato intorno al capo.

– “Ti azzeriamo i peccati”

– “Come? Non capisco!”

Ci ingegniamo e attraversiamo la breve distanza che ci separa, creata dalla mia assoluta ignoranza della lingua ebraica e la loro inesistente conoscenza dell’inglese, grazie a GoogleTranslate. Smanettano sull’IPhone, poi mi indicano lo schermo su cui leggo, appunto, che la gallina che volteggiano intorno alla testa dovrebbe servire a togliermi tutte le colpe. Passate e presenti, almeno.

Ripeto spesso d’essere spesso un’imbarazzante ignorante. Probabilmente dovrei aver ricordi immediati più sublimi di Gerusalemme, l’Immensa. Se chiudo gli occhi, invece, il primo fotogramma che torna alla mente del mio viaggio ad al-Quds è proprio quella sera, poco prima dell’inizio delle celebrazioni dello Yom Kippur: qualche compagno di viaggio ed io ci avventuriamo, splendenti, tra la folla che si riversa in Israele da tutto il mondo in quei primi giorni di settembre 2013. Ci teniamo per mano per non perderci, ma in realtà ci siamo già lasciati andare. Mi piace pensare ad un viaggio come ad un salto nel vuoto, via i bagagli che sono inutili. Diventi più leggero e più ampio, in viaggio. A Gerusalemme, poi, senti l’anima che si espande. Ho provato a dipingerla con il pennello della razionalità, ma la mia memoria spezzetta i ricordi in istantanee che non seguono alcuna logica temporale.

“Dimmi qualcos’altro di quella sera, di quei giorni”.

I profumi. La confusione. I mitra in mano a militari molto bionde e soldati molto muscolosi, che ridono abbracciati a quelle macchine da guerra. Sarebbero in grado di vivere un’altra vita, mi chiedo? Un’esistenza senza barriere, scudi atomici, attacchi, vittime e carnefici, bombe e paure, schizzi di sangue e dure accoglienze? Li ho guardati fino allo sfinimento, quei mitra, quegli zainetti addobbati con manganelli sgraziati; li ho osservati, quasi ammaliata, ma con un sapore sgradevole in bocca. è il sapore delle guerre. Ci raccontano che poi alla fine qualcuno vince. Non penso. Penso che tutti alla fine di un conflitto ci rimettano. Penso che le guerre siano sporche, e imbrattino la bellezza di questo mondo.

Probabilmente, però, io posso commentare quelle armi da una posizione molto privilegiata. Le ultime persone a partecipare ad una guerra nella mia famiglia sono stati i miei nonni ai quali mancava la forza di parlare degli scontri della Secondo Conflitto Mondiale. Nel corso degli anni, però, in Bosnia, in Palestina, in Giordania, in Russia, nell’Irlanda del Nord, mi sono chiesta: “Ma io, cosa sarei capace di fare se mi uccidessero chi amo?”. Avrei ancora fede in Gino Strada che dice “Non credere ad una parola, ogni volta che cercheranno di spiegarti come sarà bella la guerra futura”? Sarei in grado di mantenere i nervi saldi e dire, beata e al sicuro come ora, “Io ripudio la guerra”, come scritto sulla nostra Costituzione? Oppure, anch’io imbraccerei un fucile, lancerei un razzo, o comincerei a lavorare con un katiuscia? Crediamo di essere persone ragionevoli. Fino a prova contraria.

Di quella notte, e dei giorni a seguire, ho un’altra immagine in testa. Siamo al Muro del Pianto. Siamo seduti in mezzo a gente che Crede. Crede con la C maiuscola. In mezzo a quella folla, mi volto, e dietro di noi ci sono due ragazzi abbracciati. Lui ha un maglione a collo alto, lei un giacchetto bianco. Mi fanno venire in mente un pezzo delle lettere ai Corinzi: “Quand’anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non ho amore, divento un bronzo risonante”, o qualcosa del genere. E poi ancora, tante mani. Ricordo migliaia di mani, di quelle sere. Mani che reggono dei libri di preghiere che non riesco a leggere. A me sembra che quelli mani custodiscano con amore, e reggano sincere quelle litanie a me oscure. Se solo fosse possibile rivivere certi momenti in eterno. Gerusalemme l’Immensa.

Ancora, altri due scatti: da una parte migliaia di lapidi accatastate, impilate davanti alla Porta D’Oro da dove, dicono, sperano, passata l’Apocalisse dovrebbe tornare un qualche Dio a recuperare tutta quest’umanità. Veramente, chiedo io, tutti tutti? O qualcuno, come sempre, perderà la strada o sceglierà di non essere scelto? Dall’altra parte, vedo la Spianata delle Moschee ricolma di donne che si riuniscono per imparare a far di conto e uomini che parlottano sotto un sole caldo ma delicato. Sono lì ad un passo l’una dall’altra, tutte queste umanità, così uguali eppure così estreme. Continuiamo a camminare ed incontriamo la Cupola della Roccia, non solo uno dei simboli di questa città mitica, ma anche uno degli edifici musulmani più antichi al mondo. Guardiamo il Passato, e mi dico che ormai la nostra civiltà, zeppa di IPhone, ormai non può inventare nulla. Chi è venuto prima di noi ha toccato a mani nude vette inarrivabili di perfezione e creatività, senza computer, senza assistenza alla clientela.

Davanti ad uno dei paesaggi urbani più indimenticabili della mia vita, torno a chiedermi: siamo davvero poi così diversi, noi, loro, quelli là? Il Muro di Berlino, il Muro intorno alla Palestina, il ponte di Mostar, il ponte verso la Sicilia, il tuo fidanzato nato a Palermo mentre tu sei di Milano, i mitra a Gerusalemme, le bombe in Iraq, i bimbi che ridono a Kabul, i blocchi H in Nord Irlanda, loro con il velo, noi senza veli, i tuoi capelli biondi ed i miei occhi castani, le loro abitudini alimentari ed i nostri banchetti funebri, le birre sulla bara in un pub, e gli aborti protetti dalla legge, le tue preghiere al mattino, il mio espresso a colazione bevuto in modo religioso? Siamo davvero poi così distanti?

Poi – per magia, quasi, ci troviamo sul tetto dell’Ospedale Austriaco, da cui riesci quasi a vederla tutta, quella Gerusalemme, l’Eroica. E poi il Santo Sepolcro, frazionato come una cartina geopolitica italiana, tra i vari credi. Durante la visita a questo luogo importantissimo, non mi rendo conto delle divisioni. Probabilmente perché, ripeto, sono un’abissale ignorante. E probabilmente perché, di nuovo, scelgo di non apprezzare la bellezza di un confine, vero o immaginato. Preferisco, al contrario, approfondire la conoscenza dell’indefinito, di quello che non si tocca ma c’è, laggiù, da qualche parte, in mezzo alle mie o alle tue candele. Antepongo l’osservazione delle fedi, delle richieste disperate e dei ringraziamenti gioiosi, alle divisioni del luogo in sé.

Proprio dietro al Santo Sepolcro si trova la Chiesa Etiope Ortodossa, presente nella Città Santa da più di 1500 anni. Secondo gli etiopi, la loro pacifica, quieta e silenziosa presenza in Terra Santa risale a circa 3000 anni fa, quando il Re Salomone incontrò la Regina di Saba. Da fuori sembra un niente, anzi: all’ingresso pensi di trovarti davanti a delle catacombe perché è tutto scuro. Scale, gradini e dislivelli, portici e stipiti, insieme alle diverse ruvidità delle pavimentazioni e con l’uso di stuoie e tappeti, contribuiscono a sottolineare la gradualità dell’avvicinamento agli spazi sacrali. Quando cominci a scendere i gradini, quindi, non so se per auto-suggestione o cosa, ma ti sembra che il mondo fuori sparisca, si annulli. Il rumore dell’oro di alcuni altri luoghi di culto svanisce di fronte alla frattura creata da questo edificio nei confronti della vita quotidiana. Dentro questa chiesa, il Silenzio. L’armonia della Fede, immagino. Il non aver bisogno di nulla, tranne che queste mura scure.

We all bleed the same colourPalestine Wall – somewhere around Aida Refugee Camp