Prima danza. Poi pensa. È l’ordine naturale delle cose |
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Vi racconto, stasera, di un luogo che non esiste più. Passato. Cessato. Mi aiutava. Non so spiegare perché, né in che modo, ma andare in quella chiesa sconsacrata mi faceva sentire qualcosa. Era una chiesa sconsacrata in mezzo alla città. Ti accoglieva chi, prima di te, era andato avanti. Riposavano in mezzo al traffico leggero, quei morti irlandesi, sotto la cupola di St. John. Dentro, qualcuno ci aveva messo una scuola di danza e coreografia che in meno d’un decennio era diventata parte dell’avanguardia europea. Andavo ai loro spettacoli e mi perdevo. Un limone in penombra. Il viso scarnificato della morte sul corpo sacrificato d’una danzatrice. Io e Madame Zenith, in quell’ultimo spettacolo, serene in mezzo a quel non-luogo che ora è vuoto. Non credo in un’altra vita, né in una concatenazione di esistenze, ma se mi sbagliassi e fosse invece possibile trasmettere una richiesta a Qualcuno, vorrei, prego, rinascere impalpabile ballerina, caviglie tornite, scapole sporgenti, dolce e fresca e digeribile. Vorrei rinascere come parte di quegli schemi che seguono i danzatori: effimeri ma reali, e visibili sono sotto determinate circostanze. Difficili e lontani, a volte, come i sistemi solari, convenzionali e stabili come la sveglia che suona al mattino. Si chiamava come una divinità celtica, quel luogo che non c’è più. L’arte, la danza, la letteratura, dicono, non ti danno da mangiare. Allora, via! Deragliamo anche questi fondi! Ogni tanto, da qui, lontana migliaia di chilometri da quella città, ripenso a quelle volte in legno, mentre fotografavo i piedi inconsistenti di quei ballerini. Sembravano non appartenere alla realtà spessa di cui facevo parte io. Ripenso al concerto che Lisa Hannigan ci aveva donato anni fa su quel pavimento in linoleum. Ritorno a “Sediments of an ordinary mind” e a “Once beneath the skin”. |