Noé, di nome e di fatto Stampa
Articoli - Le vie della memoria

Noè, di nome e di fatto

Una piccola via alle spalle di Porta Palazzo sarà la partenza di un altro piccolo viaggio nella storia. Si tratta di via Carlo Noè. Per questo personaggio dal nome biblico, che ha attratto la mia attenzione, vale il detto “il destino nel nome”. Se il patriarca biblico, il più importante dopo Adamo e prima di Abramo, ha legato il suo nome all'Arca con cui salvò dal diluvio universale gli uomini e le specie animali, anche il nostro Noè ha avuto a che fare in modo significativo, se pur meno mitico, con l'acqua, le inondazioni e la salvezza. Vediamo come.

 

Carlo Noè, nato a Bozzole Monferrato (Alessandria) nel 1812, si era laureato ingegnere al politecnico di Torino e nel 1841 venne nominato Ispettore Capo da Carlo Alberto.
In quel periodo era in atto, da parte di Cavour in particolare, una razionalizzazione dei canali di irrigazione della pianura piemontese, così importanti per l'agricoltura, con particolare attenzione nel vercellese alla coltivazione del riso. Cavour creò un apposito ufficio per i canali demaniali nel tentativo di regolamentare l'utilizzo delle acque irrigue e vennero realizzati nuovi canali. La rete era piuttosto buona ed estesa, ma c'era un territorio, la Lomellina, che soffriva gravemente delle notevoli magre estive della Sesia. Tra il 1840 e il 1846 l'agrimensore vercellese Francesco Rossi progettò il Canale Cavour, che traeva origine dal fiume Po a Chivasso e, integrato con le acque della Dora Baltea, attraversava la pianura vercellese andando a sopperire alle necessità del novarese e della Lomellina. Il progetto di Rossi fu però osteggiato da Cavour, forse perché attraversava, tagliandola in due, la tenuta di Leri, di proprietà proprio del Conte, o forse per più elevate ragioni di stato. Di fatto il progetto venne ripreso e modificato dall'ingegner Noè e, in questa nuova versione che non passava dalla tenuta di Leri, venne realizzato tra il 1863 e il 1866, dopo la proclamazione del Regno d'Italia. Nonostante le numerose difficoltà dovute soprattutto alla grande quantità di manufatti da edificare, bastarono meno di tre anni per la sua costruzione. Con 101 ponti, 210 sifoni e 62 ponti-canale, tutti in mattoni e pietra naturale, l'opera fu per parecchi decenni il fiore all'occhiello dell'ingegneria idraulica italiana ed europea. E a vedere i tempi di realizzazione, c'è da invidiarlo anche ai giorni nostri.
Il canale è costato la fatica di molti uomini, ma ha significato per loro anche un salario sicuro e sostentamento per le loro famiglie; inoltre la buona irrigazione derivante ha contribuito al miglioramento agricolo portando ricchezza per alcuni e lavoro, anche stagionale, per moltissimi.

Ma ora facciamo un passo indietro, prima della costruzione del canale e quindi prima dell'unificazione italiana. Durante la guerra d'indipendenza dall'Austria ci fu un episodio in cui ritroviamo protagonista Carlo Noè.
Il 28 aprile del 1859 l'imperatore austriaco firmava la dichiarazione di guerra al Piemonte, che aveva respinto l'ultimatum al disarmo, e il mattino successivo le prime truppe austriache superavano il Ticino per tentare di isolare l'esercito piemontese prima dell'arrivo degli aiuti francesi. Ma dopo 17 giorni, senza aver sparato un colpo, l'armata austriaca del maresciallo Giulay che voleva marciare su Torino era costretta a ripiegare. Di fronte a loro 70mila uomini trovarono un “lago” che non era segnato sulle loro cartine. La campagna tra Santhià e Crescentino, 450 chilometri quadrati, era stata allagata da 39 milioni di metri cubi d'acqua in soli 5 giorni. La gente di campagna aveva sacrificato il riso già seminato per fermare l'esercito: il progetto dell'inondazione artificiale fu dell'ing. Noè, che dovette studiare soprattutto il mantenimento dell'acqua, in modo che non defluisse in modo troppo rapido. La popolazione asportò anche i paracarri dalle strade, per cui ciò che si vedeva era solamente acqua e fango, senza più alcun riferimento di strade e sentieri.
Gli austriaci rimasero a Vercelli dal 2 al 19 maggio, requisendo derrate alimentari in grande quantità, finché il sindaco, che era riuscito a gestire l'occupazione evitando disordini, dovette rispondere che non era più possibile trovare viveri di sorta. L'esercito se ne andò e, pare, che nonostante l'inondazione forzata, i raccolti quell'anno furono più abbondanti del solito. La Città di Vercelli venne insignita della medaglia d'oro per il nobile comportamento tenuto in questa occasione. Una bella pagina di storia, dove l'interposizione nonviolenta (potremmo dire ai nostri giorni) della popolazione con un buon progetto alle spalle, portò alla ritirata di un esercito senza spargimento di sangue.
Un vecchio proverbio vercellese recita: Al Gyulai l’à turnà ‘n drè / cun la pauta tacà i pé, ovvero “Gyulai è tornato indietro / con il fango attaccato ai piedi”.