Gentile Direttore, ho guardato piena di curiosità, come tanti, le immagini che mostravano la gente scendere in piazza animata dalla voglia di riscatto e di parola, unita da una febbre di democrazia che ha investito, dilagando a macchia d’olio, tanti paesi del Mediterraneo meridionale e non solo, dando gli esiti che ben sappiamo. Proprio su questo vorrei riflettere. Perché l’altra sera, davanti all’intervista a “Che tempo che fa” al Ministro Maroni, interrogato a proposito degli sbarchi tunisini, equiparati a un “esodo biblico”, mi sono ritrovata molto in fretta a domandarmi : “ Ma come, prima fanno la rivoluzione e poi scappano?”, “ Non è mica un problema nostro se loro non sono in grado di riorganizzarsi!” L’ho pensato e mi sono subito sentita prudere sottopelle il germe dell’intolleranza, un germe, che come è noto, si nutre di paura! E ho capito che questa paura ci è apparecchiata poco a poco, attraverso le immagini dei telegiornali, le interviste degli abitanti di Lampedusa che dichiarano “che quando questi non avranno più soldi, andranno a rubare”, (niente di nuovo, da che mondo è mondo il bisogno aguzza l’ingegno, anche quello poco nobile), i notiziari che ci confermano che gli sbarchi continueranno e che l’Europa ci ha lasciati soli. In più “lavoro non c’è neanche per noi, figurati per loro”. Nessuno nega che questa sia un’emergenza e che ci siano dei rischi, ma la solita ricerca affannata e affannosa dell’attribuzione delle debite responsabilità non fa altro, nel frattempo, che alimentare il nostro famigerato germe dell’intolleranza, facendolo ingrassare e ingrossare, in un crescendo isterico dato dalla mancanza di risposte. Mentre chi di dovere contatta chi di dovere, forse le istituzioni dovrebbero anche occuparsi di rassicurare i cittadini che, fino a prova contraria, sono il cuore dell’opinione pubblica. Non tenendoci all’oscuro, ma prodigandosi attivamente affinché , preventivamente, non ci sia per noi niente di cui avere paura. Perché non dare la possibilità agli immigrati stessi di dimostrare quali sono le loro reali intenzioni? Perché non offrire loro l’opportunità, in attesa degli smistamenti o dei tanti agognati interventi da parte della commissione europea, di impiegarsi volontariamente in piccoli servizi di pubblica utilità? In Italia esiste il servizio civile volontario, perché non offrire un’occasione anche a chi, venuto a cercare una vita migliore, voglia sdoganarsi dalle facili ostilità, per assicurare al paese ospitante di essere mosso dal bisogno e dalla buona volontà? Sono sicura che la cittadinanza tutta, si renderebbe molto più partecipe e solidale delle vicende di questi rifugiati, vedendoli operare attivamente, in maniera positiva e costruttiva, piuttosto che rinchiusi in centri sovraffollati, privati della dignità di uomini finalmente liberi o peggio ancora fatti riversare allo stato brado in una città deserta! Io non so se concretamente un progetto del genere possa essere realizzato, non ho né le competenze né le risorse per constatarlo, ma credo che anche una sola nuova idea che parli di accoglienza, possa aiutare a pensare più concretamente all’integrazione, e quindi a pestare almeno un germe in più. E poi, se il lavoro nobilita l’uomo, dare l’opportunità a questi immigrati di “guadagnarsi” vitto e alloggio in maniera “sana”, restituirebbe loro l’orgoglio di fare, e di scuotersi facili etichettature di dosso, li sottrarrebbe dal pericolo di incappare in illeciti, di cedere davanti alle promesse della criminalità organizzata, ecc. Forse per celebrare con reale spirito partecipativo e rinnovato orgoglio i 150 anni del nostro Paese, agli italiani dovrebbe essere regalata la consapevolezza di fare parte di un’ Italia propositiva, che non ha paura di esserlo.
Isabel Bagna, 15 febbraio 2011
|