Italia multietnica
Generazioni (immigrate) a confronto* [1a parte]
Il tema dei rapporti tra la società occidentale, che si avvia a divenire – o meglio, si sta riscoprendo – multietnica, e le famiglie extracomunitarie che vi immigrano,
 
Lo zingaro con gli occhiali di Porta Palazzo

Lenti tonde, una montatura essenziale… Un filo metallico, appena. Comunque, per quei tempi era già un lusso che gli permetteva di apparire come un nobile o un membro delle sfere alte della borghesia.

Invece era solo lo zingaro della Porta Palazzo di più di una cinquantina d’anni fa.Fisico asciutto, quasi da asceta, si tradiva per la pettinatura e l’abbigliamento.

 
Il coraggio di una donna...
Scritto da Laura Cappelli   
Nascere in una capanna a Kambove, nella sperduta provincia congolese del Katanga, e diventare il primo ministro di colore in uno degli stati più importanti dell’Europa, sembra più a un’avventura di fantascienza che a una storia realmente accaduta. Spesso, però, come ben si sa, la realtà supera l’immaginazione
 
L’importanza della Lingua Madre
Italia multietnica
Scritto da Ana Cecilia Ponce   

 

L’importanza della Lingua Madre
L
a lingua madre è un fattore importante nella vita delle
persone e svolge un ruolo fondamentale nella formazione
della loro identità.
Noi siamo quello che ci viene trasmesso dai nostri
genitori, dalla nostra cultura e dalla nostra città.
Siamo il prodotto di un insieme di cose e se non siamo
consapevoli di questo, non saremo sicuri dalla nostra
identità.
Lungo la nostra vita entriamo in contatto con altre
culture e altri modi di vivere. È giusto dire che, anche
se durante la propria vita si imparano lingue straniere,
la lingua madre è la matrice, la base della propria
cultura, delle proprie tradizioni e delle propie radici.
Questo, da insegnante di spagnolo, lo so.
Ho partecipato tempo fa ha un progetto molto bello che
si chiamava: “Giovani al teatro, dài valore alla tua
cultura-tradizione e mostrala al mondo”. Ho lavorato a
questo progetto a Cusco - Perù, assieme al banco
mondiale e alla ONG Marc-Perù. La finalità del progetto
era far conoscere attraverso recite, canti e danze  la
lingua “Quechua”, lingua originaria degli Incas che è
ancora parlata in molti paesi dell’America del sud ed ha
come fulcro principale le Ande del Perù. Essendo una
lingua solo parlata, trasmessa oralmente da generazione
in generazione, si è poi presa la decisione di eleggerla
a patrimonio culturale del Perù e la scrittura ha poi
preso vere e proprie regole grammaticali, diventando
lingua e non dialetto per il fatto che variava da
regione a regione, e da paese a paese. Dal nord del
Cile, passando per Argentina, Bolivia, Perú, Equador,
fino al sud della Colombia.
Esiste anche una scuola, la Real Accademia del Quechua,
a Cusco capitale dell’impero Inca, che si occupa di
conservare i canti, le poesie e i manoscritti in questa
lingua, parlata da ben 10 milioni di persone.
Il governo peruviano, all’interno del ministero
dell’educazione, ha un ufficio di educazione al
bilinguismo che si occupa della pubblicazione di libri
di testo per le scuole di Quechua, e non solo! Si
assumono professori di lingua Quechua per insegnare ai
bambini in modo che non perdano la loro lingua.
Mi rendo conto dell’importanza della lingua madre adesso
che vivo in Piemonte e sono molto d’accordo con chi
realizza questo lavoro di conservazione del Piemontese,
un lavoro molto bello e interessante. Mi auguro che la
gente capisca che la lingua non allontana la gente, ma
la coinvolge!
E-mail: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

La lingua madre è un fattore importante nella vita delle 
persone e svolge un ruolo fondamentale nella formazione 
della loro identità.Noi siamo quello che ci viene trasmesso dai nostri 
genitori, dalla nostra cultura e dalla nostra città. 

 
Abitare per integrare
Scritto da Riccardo Marchina   

 

Abitare per integrare
Il caso dei Rom di Settimo diventa letteratura grazie a
una tesi
U
n esempio di welfare virtuoso fondato sulla mutualità.
Da un lato rompe  il circolo vizioso degli sgomberi,
dall’altro prende le distanze da forme di segregazione
spaziale. È il caso del progetto denominato “Il dado”,
che ha dato casa a 4 famiglie rom romene a Settimo
Torinese. Gli appartamenti sono stati recuperati in una
palazzina in stato di degrado. Quest’esempio
d’integrazione positiva è oggi documentato da una tesi
di laurea in Scienze politiche. “Il “diritto di abitare”
dei Rom, tra emergenza e politiche d’inclusione nel
territorio” porta la firma di Concetta Tropiano che ha
eseguito la ricerca sotto la guida del professore Dario
Rei.
Tropiano, classe 1984, di casa a Torino, neo laureata in
cerca d’impiego, vorrebbe lavorare come assistente
sociale. Lei, i rom, li ha conosciuti sui banchi di
scuola.
“Le mie compagne di banco, rigorosamente in ultima fila,
erano rom del campo di Strada dell’Aeroporto – spiega
Tropiano – Conservo di loro un ricordo bellissimo”.
La curiosità verso la cultura di un popolo, di cui molti
non ne vogliono sapere, si è fatta materia di studio
durante il tirocinio da assistente sociale. “L’ho fatto
per l’Uepe (Ufficio di Esecuzione Penale Esterna) –
precisa –  è stata un’esperienza che mi ha permesso di
entrare in contatto con la realtà del “campo nomade”. Ed
è proprio in sede di  visite domiciliari  nelle baracche
e nelle roulotte che ho iniziato a domandarmi se fossero
possibili  progetti e politiche abitative in grado di
migliorare la qualità di vita dei Rom, il loro rapporto
con la nostra società e quindi la governabilità del
territorio da parte degli enti locali”.
Proprio in quei giorni Concetta viene anche a conoscenza
del progetto “Il dado”, messo in opera dal Comune di
Settimo, insieme all’associazione Terra del Fuoco,
attingendo le risorse dalla Provincia e dalla Compagnia
San Paolo.
Che cosa si è fatto nel dettaglio a Settimo?
Il progetto consisteva nell’autorealizzazione della
propria abitazione da parte di alcune famiglie (per la
precisione 4) di rom romeni, provenienti dallo sgombero
del campo abusivo Cascina La Merla di Mappano, andato
distrutto in un incendio. Il comune ha messo a
disposizione un immobile di edilizia pubblica, già
destinato all’emergenza abitativa, che necessitava di
una ristrutturazione. Sono state le famiglie stesse a
realizzarla. In questo modo, hanno anche acquisito
competenze professionali nel ramo dell’edilizia.
Un percorso non senza difficoltà…
La scelta del sindaco, Aldo Corgiat, di mettere a
disposizione del progetto una palazzina in stato
degrado, destinata all’edilizia pubblica residenziale, è
stata vissuta come una contaminazione di uno spazio
destinato ai cittadini locali. È stato davvero uno
scandalo.
Ma l’ostacolo è stato anche superato…
Già, grazie a iniziative che hanno favorito l’incontro
tra due culture e due comunità diverse.
Ci sono stati altri problemi?
Beh… la selezione delle famiglie beneficiarie… Ha
richiesto profonde capacità di valutazione degli
operatori di Terra del Fuoco, che hanno tenuto conto
dell’intensità del desiderio di emersione dalla realtà
del campo, delle dinamiche interne e dei legami
familiari”.
Gli operatori si sono dovuti scontrare eticamente tra
due poli, quello dell’accoglienza indiscriminata e
quello attivazione della persona…
Se nel polo dell’accoglienza prevale un principio di
pari opportunità, che sollecita ad assicurare in
generale una vita e abitazione dignitose; nel polo
dell’attivazione prevale una logica di reinserimento
condiviso, che giustifica un ammissione al progetto
selettiva e finalizzata.
Tra i due principi rischia proprio di esserci una
correlazione inversa: tanto più l’accoglienza è
discriminata, tanto più è difficile immaginare progetti
personalizzati di inserimento; quanto più si punta su
percorsi personalizzati, tanto più appare necessario
individuare soggetti beneficiari che siano in grado di
trarre profitto dal progetto.
Lo scontro etico è stato duro, ma alla fine, ha
rappresentato un elemento favorevole alla riuscita del
progetto stesso.
Infine non ultimo, il problema del lavoro, per potersi
mantenere e mantenere la struttura…
Un elemento altamente critico sia per motivi dovuti
all’attuale crisi economica, sia alla presenza di
pregiudizi nei confronti dei rom… Chi mai assumerebbe un
rom nella sua azienda? Per ovviare l’ostacolo, tre dei
capifamiglia sono stati inseriti con un contratto di
lavoro all’interno della cooperativa di Terra del Fuoco,
creata appositamente  per garantire opportunità di
lavoro e professionalizzare le persone.
Tra mille difficoltà hanno comunque avuto la meglio i
successi. Non è così?
È vero… Sono stati davvero tanti. Prima di tutto
quest’esempio è  un elemento di rottura di un circolo
vizioso consolidato nella realtà: incendi, sgomberi,
richiesta di fondi  al governo centrale per gestire
l’emergenza, trasferimenti, precarietà permanete.
L’esperienza de “Il Dado” ha consentito l’”uscita dal
campo” come luogo di degrado, mostrando che la
collocazione delle famiglie rom in alloggi dignitosi è
possibile.
Un secondo successo è caratterizzato dalla
partecipazione reale dei diversi attori coinvolti nella
realizzazione…
Ci sono: l’associazione Terra del Fuoco, il Comune e le
famiglie. In particolare grazie alla partecipazione
attiva delle famiglie Rom è stato possibile realizzare
tipologie abitative che rispecchiassero i progetti di
vita delle stesse. Secondo me, quando esiste la
possibilità di partecipare e, quindi  di scegliere, la
persona  si responsabilizza, acquisendo la capacità di
valorizzare ciò che le si offre.
Un altro successo?
La presenza di coabitanti (operatori dell’associazione,
giovani del servizio civile europeo, ospiti di origine
differente) che hanno rafforzato il processo di
inclusione all’interno del Dado, creando un mix  di
convivenza. Ciò ha messo in discussione la conoscenza
distorta dai pregiudizi e dagli stereotipi, secondo cui
lo stile di vita nomade, la povertà e l’inciviltà  sono
proprie della loro cultura.
C’è poi il discorso del welfare…
È emerso un modello virtuoso fondato sulla mutualità...
Mi spiego meglio le risorse del welfare si sono così
ridotte che si è creata una competizione orizzontale tra
gli ultimi e i penultimi soprattutto per quanto riguarda
la questione abitativa. Un modo per allentare questa
gara tra poveri è la costruzione di mutualità,
attraverso il cohousing sociale. La figura del
coabitante è stata, infatti, ideata pensando alle
persone (giovani, adulti monoreddito, studenti, giovani
coppie) vulnerabili rispetto al mercato abitativo che,
decidendo di condividere spazi e momenti con le famiglie
zingare residenti. Inoltre l’aspetto del cohounsing  si
coniuga con l’aspetto del housing sociale, che risolve
la domanda abitativa con una modalità non convenzionale,
ovvero quella dell’autocostruzione che riduce
sicuramente i costi.
Nella tesi vengono citati anche casi esteri
d’inclusione…
Per dare uno spaccato delle diversità delle azioni
pubbliche intraprese da vari stati, mi sono soffermata
sulla descrizione  di due modelli di intervento: quello
“contemperante” dell’Inghilterra e quello “punitivo”
della Francia.
Sinteticamente, le politiche di housing  inglesi sono
tese all’inserimento permanente dei rom in abitazioni
tradizionali di edilizia pubblica e privata. Tali
soluzioni vengono fortemente incoraggiate e considerate
auspicabili, in quanto favoriscono l’inclusione e la
coesione sociale.
Invece, le politiche di housing in Francia sono plasmate
sul modello politico del “bastone e della carota” che
prevede una gestione degli interventi rivolti alla
popolazione rom, caratterizzato dall’offerta di un
sistema di servizi, unita ad interventi punitivi in caso
di trasgressione delle regole delle aree di sosta. Tale
modello è diventato più rigoroso con i provvedimenti del
governo Sarkosy del 2003. L’idea di fondo promossa dal
modello è la seguente: il Rom buono è colui che non
delinque e, di conseguenza, in assenza di condotte
devianti può vantare dei diritti.
Quali le conclusioni della tesi?… E “speranze” per il
futuro?
Come dimostra l’esperienza del Dado, sono possibili
politiche alternative, orientate all’integrazione, alla
costruzione di relazioni positive, o almeno a basso
conflitto. Sarebbe auspicabile che progetti come il Dado
non rimangano solo piani pilota a livello locale, ma
diventassero prassi consolidate e istituzionalizzate,
ampliando così il mix delle soluzioni abitative.
Per portare a compimento il suo lavoro Tropiano, si è
confrontata in modo diretto con le comunità Rom…
È stato necessario svolgere un’indagine sul campo che
non solo mi ha permesso di confrontarmi con la micro-
comunità rom romena che vive al Dado, ma anche con la
comunità romena che vive al campo non autorizzato di
corso Tazzoli a Torino. Tutte le famiglie intervistate
mi hanno accolta con calore nelle loro umili case o
baracche, raccontandomi le proprie storie di vita. Il
confronto diretto ha fatto venir meno quello stereotipo
secondo cui i rom, in virtù della loro tradizione e
cultura, sono abituati a vivere in accampamenti di
fortuna, all’interno di baracche o roulotte. Questa
immagine stereotipata ha perso di efficacia se la
confronto con la realtà dei loro racconti: le
descrizioni delle case in cui vivevano in Romania
confermano che solo all’arrivo in Italia hanno provato
l’esperienza del campo.
In questi mesi di studio che idea si è fatta della
comunità Rom che ha avuto modo di conoscere?
Le storie di vita con le quali sono venuta a contatto
nei mesi di tirocinio hanno messo in evidenza un filo
comune: quello di famiglie che partono da condizioni
disagiate e sperano di riuscire a riacquisire dignità,
traferendosi in un appartamento, e scrollandosi di dosso
la stereotipata accezione negativa di zingaro. C’è la
volontà di integrarsi soprattutto per dare un futuro
migliore ai propri figli.
Quale la sua opinione per una buona convivenza in
futuro?
È necessario prendere le distanze da forme di
segregazione fondate su criteri di omogeneità
sociale/etnica. Queste generano solo atteggiamenti di
diffidenza e ostilità. La causa  primaria delle
difficoltà di interazione tra i rom e non rom non è la
diversità culturale, quanto l’esistenza di fattori di
disagio sociale e carenza di risorse che pongono gruppi
come i Rom in condizioni di disuguaglianza.

Abitare per integrare

 Il caso dei Rom di Settimo diventa letteratura grazie a 
una tesi
Un esempio di welfare virtuoso fondato sulla mutualità. 
Da un lato rompe  il circolo vizioso degli sgomberi, 
dall’altro prende le distanze da forme di segregazione 
spaziale. È il caso del progetto denominato “Il dado”, 
che ha dato casa a 4 famiglie rom romene a Settimo 

 
<< Inizio < Prec. 1 2 3 4 5 6 7 Succ. > Fine >>

Pagina 2 di 7