Lo zingaro con gli occhiali di Porta Palazzo |
Lenti tonde, una montatura essenziale… Un filo metallico, appena. Comunque, per quei tempi era già un lusso che gli permetteva di apparire come un nobile o un membro delle sfere alte della borghesia. Invece era solo lo zingaro della Porta Palazzo di più di una cinquantina d’anni fa.Fisico asciutto, quasi da asceta, si tradiva per la pettinatura e l’abbigliamento. I suoi capelli erano cespugli di rose in rivolta e l’eleganza non aveva mai visitato i suoi schemi mentali. Tutti, insomma non proprio tutti, ma almeno quelli che lo avevano conosciuto o avevano avuto occasione di avere a che fare con lui, a Porta Palazzo, lo ricordavano come un gran mangiatore d’agnello. Amava in modo pazzo, viscerale e morboso, quella carne grassa e dal gusto selvaggio. Lui la definiva la feccia della tavola, ma intanto non sapeva resisterle. Il non dominarsi a tavola, lo faceva diventare pazzo. Era una sconfitta atroce per uno come lui che diceva di aver dedicato la sua giovane vita all’autocontrollo. Poi proprio lui… come poteva non gestirsi, quando lo si riteneva fosse in grado di controllare tutto un popolo? E di poterlo fare per giunta in cammino? Erano altri tempi. In un periodo di carrozze e senza motori rombanti, era forse più facile. Gli scandali non venivano a galla e la gente, che era più modesta, fuggiva la maleducazione e la supponenza che dilaga oggi, epoca di dotti e professori. Non ricordo chi mi raccontò la sua storia. Ma tra certi anziani della Torino di qualche anno fa, volava di bocca in bocca Amava i suoi occhi… Riteneva che la vista fosse tutto per la vita. Per lui, era essenzialmente un mezzo di comunicazione. Parlava con gli occhi. Interrogava il mondo, con gli occhi. Si nutriva e amava, sempre con gli occhi. Adorava le stelle perché gli tenevano compagnia di notte e raccontava di passeggiarci in mezzo, anche se le scarpe impolverate poi lo tradivano un po’. Parlava di atsiganoi… di piatti incantati, lanciatori di coltelli e di danzatrici stregate. Nella sua testa c’era Bisanzio e il monte Ararat, maghi e sette eretiche. Si definiva quello che “passa… e trapassa”. Lui era cingar quello “che parte e si muove”. Visitò tutta l’Europa con la semplice curiosità meccanica dei suoi occhi e la forza dei muscoli delle gambe. Intoccabile, intangibile, perché sporco e pagano, perché impuro, era quello che “metteva i piedi”, entrava in posti vietati. Il suo cuore era teso come corde di violino. Il suo cuore suonava stridulo come un violino a pezzi di un mendicante, di certo ubriaco. I vecchi di Borgo Dora lo ricordavano per i suoi occhiali tondi e stravaganti… per quelle lenti essenziali… da astronomo e astrologo… da giullare e saltimbanco… aristocratico e mentecatto… Ma conobbe anche la tortura fisica e la deportazione del “Porrajimos” (la devastazione), la Shoah degli zingari. La sua stirpe arrivò dalle montagne dell’India per trovare la terra promessa, la Lusitania. Non la raggiunse mai. Lo fermarono prima… “Purtroppo”, qualcuno aggiunse anni dopo. “Pazienza!”, disse subito lui, per altro con la semplicità di chi non cerca il successo. Tuttavia, durante questo lungo viaggio, insegnò un sacco di cose e altrettante ne apprese. Amava raccontare che Oriente e Occidente erano la stessa cosa, solamente capovolta. Per lui, Est e Ovest si stavano correndo in contro a una velocità pericolosa e si augurava di non assistere mai al loro scontro. “Gli occidentali imitano gli orientali e viceversa. L’uno vuole essere l’altro”, diceva. Un giorno lo trovarono stecchito su di una panchina lungo la Dora. Gli avevano anche rotto gli occhiali. Era sopravvissuto ai campi di sterminio, ma non all’indifferenza del benessere di una ventina d’anni fa. Ribadisco, non ricordo chi mi raccontò questa storia, ma chiunque lo abbia fatto, mi fece notare che gli assassini non gli permisero di vedere la sua morte, frantumandogli le lenti. Si narra che i suoi occhiali volino ancora oggi tra la luna e le stelle, insomma dove era solito vagabondare lui quando si sporcava le scarpe con la polvere dei sentieri astrali… quando ricopriva i calzari con il pulviscolo di stelle. Non ci credete? Alzate lo sguardo nella notte di San Lorenzo e se vi par che qualcosa brilli e si muova, son le sue lenti da miope cronico e inguaribile che riflettono la luce fioca di centinaia di soli, appartenenti a chissà quali periferie dell’universo. Miracolo del potere rifrattivo del cristallo. Prodigio della mancanza di diottrie. Lui era il re, il lord, il maestro. Era rajan, raji, rajñi. Era romali, romavali. Era il Romà di Porta Palazzo.
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