Generazioni (immigrate) a confronto* [1a parte]
Il tema dei rapporti tra la società occidentale, che si avvia a divenire – o meglio, si sta riscoprendo – multietnica, e le famiglie extracomunitarie che vi immigrano, è stato al centro di due incontri svoltisi durante il seminario Forme di trasmissione di valori e pratiche tra le generazioni, organizzato dai dottorandi del Seminario Permanente Generazioni del Dipartimento di studi storici dell’Università di Torino, nello scorso anno accademico 2012-2013.

Nella lezione intitolata Narrazione e silenzi tra i genitori migranti e i loro figli, l’antropologa culturale Vanessa Maher, di origine inglese ma nata in Kenya, docente all’Università di Verona, ha evidenziato che è molto difficile parlare dei silenzi dei migranti: le famiglie spesso si trincerano dietro il silenzio perché l’interesse da parte degli studiosi occidentali verso la loro esperienza viene sentito come un’intrusione nella privacy. Altre volte capita invece che siano gli anziani a parlare subito e molto, esprimendo nostalgia e rimpianto per il proprio Paese. Ciò che si racconta o si tace dipende spesso dallo stato d’animo dell’intervistato, dall’impressione che egli ha dell’interlocutore, da vari fattori di relazionalità.

Una manifestazione di questa difficoltà nel rievocare il proprio passato o nell’immaginare il proprio futuro è l’«afasia», in senso lato una «incapacità di dire» che rivela una rimozione silenziosa del proprio vissuto. L’afasia, secondo alcuni studiosi come l’africanista David Cohen, si manifesta anche come dimenticanza, un non ricordare che in realtà è più o meno voluto dal migrante che non vuole parlare della propria esperienza. Secondo l’antropologo Paul Connerton, sarebbe possibile individuare da quattro a sette tipi di questa dimenticanza, rintracciabili in diverse culture: per esempio, i Filippini tendono a (voler) dimenticare la propria “vecchia” identità per non intralciare la formazione dell’identità “nuova” dei loro figli nel Paese ospitante, e, avendo avuto a loro volta antenati che migravano da un’isola all’altra dell’arcipelago filippino, non percepiscono la migrazione come un’esperienza importante da narrare ai propri figli. C’è poi il caso dei Manouches, zingari soprattutto francesi, tra cui, quando uno muore, i parenti bruciano tutti i suoi averi (ma alcuni più ricchi non lo fanno, anzi si fanno costruire tombe costose!): è un caso di «amnesia strutturale», che si riscontra anche in Marocco, dove è consuetudine interessarsi di quale genealogia si ha alle spalle, soprattutto nella speranza di ritrovarvi qualche “santo” mussulmano, ma tale genealogia è legata alla produzione di documenti ed è quindi quasi esclusivamente maschile: anche quando su ciò venivano intervistate delle donne, la genealogia che descrivevano risultava composta solo da uomini. Un terzo tipo di dimenticanza è l’«obsolescenza programmata», una mancanza di disinvoltura nell’imparare ad usare i mezzi tecnologici moderni – che invece i giovani acquisiscono in fretta – che potrebbe “tradire” un timore di non sentirsi adeguati all’utilizzo di strumenti come questi. Un quarto tipo è appunto l’«afasia», il «silenzio della mortificazione»: si dice di non ricordare perché ci si vergogna di ciò che si ricorda di avere vissuto e non lo si vuole raccontare; dimenticanza e memoria sono due facce della stessa medaglia, il ricordo, e si dimentica per rimuoverlo.

La risposta psicologica può dipendere anche da come ci si ambienta nel Paese di arrivo. Uno studio della stessa Vanessa Maher evidenziava che tra gli immigrati marocchini «di seconda generazione» in Gran Bretagna non c’era alcuna idea di «memoria collettiva» perché i loro genitori non avevano mai raccontato nulla della propria migrazione; per questi adolescenti il Marocco era soltanto il paese delle vacanze estive. Generalmente, i giovani dei Paesi nordici d’Europa meglio ambientati si dichiaravano grati ai propri genitori per essere emigrati, garantendo loro un miglior tenore di vita; per esempio, in Gran Bretagna molti adolescenti si lasciavano intervistare e filmare mentre dicevano queste cose, mentre in Italia e in Spagna i racconti sono stati molto più “cupi” e c’era più vergogna a raccontare di essere arrivati stremati e malridotti sulle coste, dopo aver lasciato molti morti durante la traversata. Era come se sentissero la propria esperienza non ancora abbastanza sedimentata, elaborata interiormente, per poter parlarne. Da parte dei genitori, viceversa, sembra esserci il desiderio di evitare ai figli l’assimilazione del senso di dignità ferita che sentono in se stessi, evitando racconti “amari”, e di conseguenza nei figli non nasce l’interesse per l’esperienza dei loro genitori, perché quasi non la conoscono. La difficoltà dei genitori nel rivivere il proprio passato si accompagna talvolta alla difficoltà di interagire con la società circostante nel presente e di auspicare un futuro per i figli: sembra che alcune famiglie, una volta emigrate, si vergognino di sentirsi “indietro” rispetto allo standard di vita del Paese ospitante e non vogliano proporsi come esempio per i figli; probabilmente sentono una frustrazione, anche perché in alcuni casi vivono un senso di perdita, per esempio alcuni di loro nel Paese di origine erano magistrati, mentre ora sono costretti a svolgere lavori più umili. Ci si aggiunge l’aspetto dell’ansia verso alcune caratteristiche della società occidentale, per esempio la diffusione della pornografia nei confronti delle figlie. Talvolta le donne in Italia decidono di far educare i figli nelle scuole cattoliche, ma nonostante questo, temono che ciò non basti a proteggerli dalla diffusione del razzismo; allo stesso tempo, il ragazzino che frequenta queste scuole o i collegi, a volte si sente sradicato perché si trova estraniato dalla “cultura della strada” della maggior parte dei suoi coetanei, non condivide con loro la stessa esperienza. Inoltre, vedendo che in Occidente l’adolescenza si vive in modo del tutto diverso dai Paesi islamici, vivono in modo drammatico l’adolescenza “occidentalizzata” dei figli: i genitori più ignoranti pensavano per esempio che l’adolescenza fosse una specie di invenzione, un artificio occidentale, anziché un periodo evolutivo reale, perché loro non l’avevano vissuta per nulla così. Perciò tra genitori e figli c’è differenza anche nella percezione della legalità delle proprie azioni: generalmente i genitori sono più normativi («Non si fa questo, se no vieni espulso dall’Italia…!»), mentre i figli ritengono quasi impossibile un pericolo così enorme («Ma sì, tanto non succede mai…!»).

In tutte queste situazioni, la comunicazione tra le generazioni immigrate è molto difficile e rischia di bloccarsi; uno psichiatra francese di origine algerina definisce questi genitori «defigliati» perché sentono di non poter avere con i propri figli il rapporto affettivo che vorrebbero. Continua nel prossimo numero...

* Articolo consegnato anche alla prof.ssa Vanessa Maher in occasione della presentazione del libro Ex-Italian Somaliland di Sylvia Pankhurst (1951) presso il Centro studi Sereno Regis di Torino, il 6 giugno 2013.