Generazioni (immigrate) a confronto* [2a parte]
Il tema dei rapporti tra la società occidentale, che si avvia a divenire – o meglio, si sta riscoprendo – multietnica, e le famiglie extracomunitarie che vi immigrano, è stato al centro di due incontri svoltisi durante il seminario Forme di trasmissione di valori e pratiche tra le generazioni, organizzato dai dottorandi del Seminario Permanente Generazioni del Dipartimento di studi storici dell’Università di Torino, nello scorso anno accademico 2012-2013.

Il secondo incontro sulla società multietnica è stato quello con il sociologo Michael Eve, inglese, già ricercatore all’Università “Federico II” di Napoli e ora docente all’Università del Piemonte orientale “Amedeo Avogadro”. Con la lezione intitolata I figli degli immigrati. Che cosa ci dicono sulla trasmissione dei valori tra le generazioni?,Michael Eve ha posto l’attenzione sul rischio di superficialità da parte dello sguardo occidentale verso le famiglie degli immigrati; il senso comune tende a immaginare che la trasmissione dei valori dai genitori ai figli sia difficoltosa, perché si tende a sopravvalutare la pressione esercitata da una parte dal nostro contesto sociale, dall’altra quella dell’appartenenza, marocchina, rumena, o polacca e messicana negli Stati Uniti. Si tende a pensare che i genitori siano marocchini, o rumeni, “puri”, mentre i figli sarebbero dei “misti”. La ricerca italiana, in generale, si concentra molto sul tema dell’identità pensata come appartenenza nazionale: una delle domande più frequenti che si sentono porre in queste interviste è: «Quanto ti senti italiano e quanto – per esempio – marocchino?», come se si potesse misurare con una percentuale!

Talvolta si pensa alle «seconde generazioni» come a elementi di problematicità, devianza, rischio di caduta nel crimine; nella letteratura sociologica si parla di «figli sospesi», in quanto soggetti di un’«acculturazione dissonante», che comporta la perdita dei valori tradizionali. I figli degli immigrati vengono visti come «ibridi culturali» più che altro perché della cultura di una etnia si ha spesso una nozione semplificata, come se fosse una dimensione schematica e sempre identica a se stessa; ci si focalizza su aspetti parziali, per esempio negli USA i padri messicani sono immaginati come autoritari, conservatori, mentre i figli sarebbero più attratti dai valori del contesto statunitense e più egualitari. Ciò perché la «cultura» marocchina, rumena, messicana, eccetera, viene sovente ridotta a pochi elementi da chi fa parte della società d’arrivo di questi migranti, rischiando di alimentare degli stereotipi; talvolta c’è attrazione da parte di chi appartiene alla società ospitante verso i legami interpersonali tra gli immigrati, che appaiono più solidi (si può pensare al numero di conversioni di cittadini italiani all’Islam, che probabilmente ha raggiunto diverse migliaia nell’arco di qualche anno); c’è una semplificazione che non tiene conto, ad esempio, della differente appartenenza socio-economica dei soggetti, che se non è determinante, ha comunque il suo peso: per esempio, un medico marocchino e un contadino marocchino sono entrambi marocchini, ma verosimilmente i valori primari dell’uno non sono gli stessi per l’altro, così come per esempio tra un marocchino nato negli anni ’50 e uno nato negli anni ’80. Le ricerche dei sociologi, quindi, non confermano affatto una certa visione comune di due schieramenti generazionali divisi, genitori contro figli, in materia di tradizione, appartenenza, trasmissione di valori; i genitori, anzi, sembrano consapevoli di non poter creare dei “piccoli rumeni (o marocchini, o altro) tradizionali”, perché – ha detto efficacemente Michael Eve – «i valori non possono essere trasmessi da una persona all’altra come le informazioni tramite i computer».

Quello che più emerge dagli studi è che i conflitti tra genitori e figli immigrati, quando ci sono, sono molto legati alla dimensione del presente, piuttosto che alla conservazione e trasmissione del passato; i conflitti di quest’ultimo tipo, identitario-culturale, sono la minor parte e càpitano per esempio in occasioni particolari come il matrimonio di un figlio o di una figlia. Per esempio si potrebbe pensare che i genitori immigrati, avendo generalmente meno risorse economiche delle famiglie del Paese ospitante, vorrebbero che i figli siano inseriti subito nel mercato del lavoro, mentre invece tendono a indirizzare i figli verso percorsi scolastici più lunghi (il liceo anziché l’istituto professionale), e ciò capita anche tra le famiglie con problemi economici più acuti come lo sfratto o la disoccupazione. I conflitti riguardano i comportamenti dei figli, come la frequentazione di cattive compagnie o l’esagerazione nel consumo dell’alcool, e gli aspetti dell’integrazione nella società attuale (per esempio, chiedersi: quanto valore avrà nella vita di mio figlio o mia figlia il diploma?) piuttosto che la conservazione tout court dell’identità culturale rumena, marocchina, eccetera: l’attaccamento alle pratiche tipiche della cultura di appartenenza non ha infatti dei confini precisi, per esempio molti giovani maghrebini osservano il digiuno di Ramadàn, ma non rispettano il divieto di bere alcolici, che è altrettanto islamico. Una pratica estrema come il «delitto d’onore» da parte di un padre che uccide la figlia perché diventata «troppo occidentale» nel vestirsi o nel frequentare ragazzi europei, può essere scambiata per una consuetudine del Paese di provenienza della famiglia immigrata, mentre in realtà può essere stimolata da altri fattori, per esempio un cattivo percorso scolastico, che aggravano la tensione dell’immigrato nei rapporti con la società d’arrivo, che non sempre gli è ostile, ma gli è sempre, almeno in parte, estranea. Più che l’ossessione per le “radici”, prevale il timore per il futuro all’interno della società ospitante: che i figli trovino un lavoro onesto, che non cadano nella delinquenza, e non è vero nemmeno che queste preoccupazioni riguardino soltanto le famiglie di ceto più basso (anche se prevalgono in quest’ultimo perché la maggior parte dei genitori svolge professioni subalterne e considerate dequalificate, come la domestica). Ciò che emerge è che i valori di cui i genitori parlano con i figli e per cui si preoccupano sono più che altro il lavoro, l’istruzione, il rispetto degli altri, la solidarietà familiare, alla fine dunque – come ha giustamente osservato una studentessa presente al seminario – gli stessi valori di gran parte delle famiglie italiane!

La domanda che allora ci si dovrebbe porre è: che cosa cambia non nella cultura, ma nella vita quotidiana, delle persone che emigrano? Tra le cose più importanti c’è sicuramente la subalternità nel mondo del lavoro; una grande differenza c’è anche se il migrante sa di trovarsi nel Paese ospitante temporaneamente o stabilmente. Lo spostamento geografico comporta cambiamenti nelle relazioni sociali, per esempio con il vicinato; c’è anche il fattore-età, perché la maggior parte degli immigrati è giovane (l’età media è 25 anni) mentre gran parte dei loro genitori rimane in patria; manca perciò la collaborazione tra parenti di due diverse generazioni: per esempio, se si hanno figli, è impossibile lasciarli per qualche ora ai nonni (il professor Eve ha ricordato anche il caso delle bande di strada di adolescenti latinoamericani a Genova, che fecero notizia qualche anno fa, che non erano prodotti dell’esclusione da parte della società italiana “razzista”, ma del processo di socializzazione: le loro madri erano costrette a non avere il tempo di occuparsene per lavorare, e loro non trovavano per nulla attraente la scuola al mattino e i compiti a casa al pomeriggio).

Tutto questo richiede all’immigrato un vero e proprio ripensamento totale dei rapporti interpersonali, e allo stesso tempo richiede allo studioso di scienze sociali di conoscere meglio proprio che cos’è il processo di socializzazione tra le persone.