Crescere lontani da casa

di PierVittorio Formichetti

Tra gli Appuntamenti interculturali 2013-2014 del Centro interculturale Città di Torino (plesso scolastico di corso Taranto 160) era stato interessante dal punto di vista delle problematiche della società multietnica quello del 28 gennaio 2014,intitolato "Crescere lontano da casa. Dialoghi intorno alle scelte educative negli scenari migratori" e tenuto da Simona Taliani, laureata in Psicologia, ricercatrice presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino e titolare di dottorato in Antropologia culturale.  

L’antropologia culturale si è basata fin dagli inizi sull’alterità culturale tra esseri umani: lingua, abitudini, consuetudini, valori, ci hanno costruiti da subito in un contesto sociale che ci distingue dagli altri, piuttosto che renderci simili. Questa plasmazione culturale riguarda sia la mentalità – come guardiamo e ci rappresentiamo il mondo – sia il corpo – per esempio le modificazioni al cranio in Congo, ai piedi delle bambine in Cina, al collo in Thailandia, eccetera. Un caso estremo sono gli interventi di chirurgia genitale sulle donne nel Corno d’Africa: Somalia, Eritrea, Sud-Sudan... (Michela Fusaschi, antropologa, studia documenti dell’epoca coloniale italiana – fine ’800/inizio ’900 – in cui missionari e medici, tutto sommato, tendevano ad approvare questi trattamenti). 

Quando però pratiche di costruzione umana estranee alle nostre, anziché rimanere lontane, arrivano “vicino a casa”, come si reagisce? Si abbassa la soglia di tolleranza all’alterità. Per esempio, un bambino marocchino, di origini berbere, non poteva imparare in poco tempo a dire in italiano che doveva fare i bisogni; alla scuola materna la maestra, frettolosamente, parla alla madre del problema della pipì addosso usando impropriamente il termine enuresi (che è malattia solo dopo i 5-6 anni), e la madre vuole risolvere a modo suo la “malattia”: con la cauterizzazione sull’inguine per mezzo di bastoncini arroventati. Quando alla scuola materna qualche maestra si accorge delle cicatrici, la famiglia viene denunciata al tribunale per maltrattamenti su minore, come previsto dalla legge (provvedimento n° 403) il bambino viene allontanato dalla famiglia, e portato prima in ospedale per le visite e poi in una comunità dove, tranne per un’ora alla settimana, non rivedrà più la madre per quasi due anni. Se la madre avesse “curato” così il bambino nella sua regione di origine, non sarebbe apparso un maltrattamento, ma un normale metodo curativo, di cui si parla con gli altri; in Italia invece è stato confuso con un maltrattamento. Un altro esempio, fortunatamente non così tragico, proviene dalla tradizione peruviana, per cui ai bambini molto piccoli si mettono dei braccialetti rossi ai polsi perché siano protetti dagli spiriti maligni quando sono fuori dallo spazio domestico; quando le mamme peruviane portavano i bambini dal pediatra, lui li faceva spogliare per visitarli e si stupiva del fatto che l’unica cosa che le madri non volevano assolutamente togliere erano i braccialetti rossi. Saputo il motivo, il pediatra voleva convincerle che oggi superstizioni come quelle non hanno senso, che gli spiriti non esistono, eccetera, ma le madri non volevano e basta; perciò, con le mediatrici culturali che le accompagnavano, hanno escogitato il sistema di levarglieli solo pochi minuti prima della visita nello studio del pediatra e di rimetterglieli subito dopo, così si salvaguardavano sia il punto di vista “scientifico” del medico, sia la credenza tradizionale delle mamme. 

Questo spazio simbolico, culturale – che abbiamo anche noi – si trasforma sempre nel corso del tempo e delle generazioni; anche in Italia, per esempio, non si è sempre conservata come ai tempi delle nostre nonne l’usanza di appendere al collo del neonato l’abitino con l’immaginetta del santo protettore. Sia nel caso della mamma berbera, sia delle mamme peruviane, è importante sapere che entrambe hanno agito in buona fede, credendo a questo spazio culturale proprio, tradizionale. Il caso del bambino berbero è più grave, perché poi, dopo quasi due anni, il bambino è cambiato: quando, dopo la visita settimanale, deve lasciare la mamma, ha delle reazioni aggressive, sbatte la testa contro il muro; non capisce perché nella società che lo ospita sono ritenute pratiche cattive quelle che, al contrario, per lui sono cure normali, che ha sempre visto applicare a casa sua...  In questi casi nascono conflitti di interpretazione su una pratica antropologica estranea al contesto di arrivo dei migranti; essi cominciano a chiedersi perché devono cambiare nel loro agire, e che cosa va cambiato, che cosa non devono più fare, che cosa è meglio fare di nascosto.

In Bolivia – come anche in certe zone italiane tempo fa – i bambini vengono completamente fasciati con delle coperte arrotolate, per essere portati meglio sulla schiena delle madri mentre esse lavorano nei campi o salgono in montagna, ma anche perché «crescano dritti», non solo in senso fisico ma anche in senso morale. Al contrario, in Senegal e in Nigeria ci sono pratiche di «massaggio» che stirano e contorcono le articolazioni del neonato; spesso avvengono nello spazio domestico, ma quando vengono viste al di fuori, per esempio in un centro per l’infanzia, le educatrici si preoccupano, pensano che facciano male. Un caso simile, ma più grave, era accaduto a Reggio Emilia: in una scuola materna i bambini giocavano seminudi perché faceva caldo, e un bambino albanese aveva detto che suo padre a volte gli prendeva in bocca il pene: si sospettò subito un caso di abuso sessuale! Il padre fu processato, la comunità albanese si mobilitò per difenderlo, e solo dopo qualche tempo si seppe che nella comunità di origine della famiglia del bambino, nelle montagne dell’Albania, è un’usanza dei padri per stimolare delle prime manifestazioni di virilità nel bambino e per trasmettere virilità; non c’è nulla di abusante, di incestuoso, avviene soltanto con questo significato e solo tra il padre e il figlio maschio quando è piccolo. Ma nel contesto italiano è apparsa una pratica estremamente estranea; in questi casi lo Stato agisce in modo troppo “aggressivo” in confronto alla conoscenza che si ha di queste pratiche, e ciò accade anche perché oggi in Italia ci sono molte comunità di immigrati extraeuropei, ma non c’è ancora una conoscenza sufficiente delle differenze etnico-culturali, anche nell’àmbito della genitorialità e delle pratiche di vita familiare.