Questo mese effettueremo una insolita e curiosa panoramica sulla lingua inglese. Si tratta di un’indagine un po’ irriverente, frutto di mie varie rifl essioni in qualità di insegnante ed eterna studiosa dell’inglese e, naturalmente, osservatrice delle dinamiche e dello sviluppo di tale lingua innestata in un territorio, quale quello italiano, non anglofono.
La prima domanda da farsi in merito è: come se la cavano gli italiani alle prese con l’inglese? Il luogo comune su di loro in merito è che non è la loro specialità, poiché in generale sono alquanto restii e refrattari a imparare le lingue straniere e che se la cavano decisamente meglio con i gesti. Nessuno meglio di loro sa utilizzare le mani per comunicare. Già utilizzando l’italiano, spesso essi, quando non accompagnano le parole, addirittura le sostituiscono. Ciò che però aggiungo io è che altrettanto spesso, gli italiani amano stare seduti su questo loro stereotipo, e che si apprezzano molto meno di quanto valgano. Sono ormai abituati a credere di non conoscere l’inglese, non saperlo parlare né scrivere. In realtà, la maggioranza di loro lo utilizza quotidianamente e senza sforzo, perché non se ne rende conto. Mia cugina Simo in questi giorni è alle prese con l’inglese e mi ha chiesto di aiutarla. Dialogando, non sapeva come esprimere in inglese la parola “prenotazione”. Le ho detto di pensarci, perché pensando a certi ambiti lavorativi, come per esempio quello alberghiero o turistico, le sarebbe venuto in mente, dal momento che è un termine entrato a viva forza nel dizionario dell’italiano, arrivando spesso a sostituire quello indigeno. Risposta: booking. Da qui l’espressione: fare booking. Quotidianamente, quante parole o espressioni inglesi utilizziamo? Tantissime, più di quante possiamo immaginare: mouse, metal detector, cow-boy, autostop, black-out, flashback, cash, no problem, box, T-shirt, leggins, dread, target, fi lm, personal computer, knowhow, leader, meeting, shopping, boiler, freezer, residence, vip, teenager, game, hi-fi , air-bag, plum-cake, weekend, full-immersion, jeans, optional, trendy, all inclusive, quiz, yacht, zombie, iceberg e la lista può continuare. Un’altra considerazione a cui sono giunta è la possibilità di potere distinguere e classifi care in tre diverse categorie la tipologia di inglese che gli italiani parlano o usano comunemente, e che presenta delle interessanti varianti rispetto alla lingua standard. Io le defi nirei come l’espressione linguistica della fantasia e creatività degli italiani, e non come la loro incapacità o diffi coltà nel parlare l’inglese o una qualsiasi altra lingua straniera. Ecco quindi la nostra classifica: 1) “Nuovo dizionario inglese/italiano – italiano/ inglese”, ovvero un vasto repertorio di termini ed espressioni inglesi, che passando in italiano hanno perso il loro signifi cato originario, acquistandone uno nuovo e differente, tale che un anglofono non riuscirebbe a capirne il significato. Troppo difficile? Pensate ad esempio alla parola inglese box. Si tratta di un termine trasmesso all’italiano e che, in questo passaggio, ha perso il suo senso originario. In italiano, infatti, box significa “garage”. In inglese invece significa “scatola”, mentre “garage” si dice nello stesso modo, garage. Attualmente è molto in voga nel nostro Paese la parola inglese fiction = finzione. Per gli italiani essa identifica un genere di film televisivo, normalmente a puntate. Detto termine ha sostituito in italiano il demodé “sceneggiato”. Il legame con il significato inglese si trova nel fatto che effettivamente questo tipo di produzione, almeno inizialmente, aveva come soggetto temi inventati, non reali. Diversa è invece l’espressione soap opera, nata già in territorio anglofono per indicare sceneggiati televisivi, e successivamente trasmessa in italiano mantenendo il medesimo significato. Che ne dite poi del Mister? In inglese significa “signore”, ma in italiano indica l’allenatore, soprattutto di calcio. Da praticante e amante della pallavolo, si utilizzava anche nei cartoni animati Mimì e la nazionale di pallavolo e Mila e Shiro due cuori nella pallavolo per indicare l’allenatore di questo sport. In inglese, invece, un allenatore non può che essere il coach o, in certi casi, il trainer. Anche in italiano si usa quest’ultimo termine, ma esso è in tal caso sinonimo di “allenatore di palestra”. Pensiamo adesso alla parola stage. Essa è addirittura francese e, di conseguenza, la sua pronuncia corretta è [staj] e, inteso come lo si intende in italiano, cioè un periodo di formazione con carattere professionale senza retribuzione o con rimborso spese svolto prezzo un ente o un’azienda, mantiene quindi la sua origine francese. La stessa parola esiste anche in inglese, tuttavia il suo significato è diverso. Con stage pronunciato all’inglese [stèig] si indica il palcoscenico. Il periodo formativo-professionale si chiama invece training course. E che cos’è per gli italiani il body? È un capo d’abbigliamento femminile, ma per gli anglofoni esso indica il corpo; l’indumento si chiama bodysuit o leotard. Su molti zainetti campeggia la sigla S.O.B. = Save Our Backs, salvate le nostre schiene. Per chi è italiano. Ma per un anglofono non sarebbe certo un invito o un complimento: Son of Bitch = figlio di puttana. Scusate. E adesso provate voi a sbizzarrirvi, la lista è lunga! 2) “Quelli che l’inglese…” ovvero espressioni di “impronta inglese” o miscele di italiano e inglese create ex-novo da chi, fra gli italiani, ha interesse per la lingua inglese, la considera di tendenza e la utilizza per farsi pubblicità, farsi conoscere e notare, ma dovrebbe qualche volta ripassarlo un po’. Partiamo da un curioso Music’s Shop, ovvero il “negozio della musica”. Ma forse quel fi nto genitivo sassone ’s non gli si addice. Meglio senza, oppure Th e Shop of the Music, che però per un’insegna non è utilizzabile. Restiamo in ambito commerciale: desiderate un po’ di pane? Tutti da Panshop. Tutti meno che un madrelingua inglese. “Pane” in inglese è bread. E comunque panetteria si dice bakery. Nel settore trasporti, spopolano i termini logistic e trasport. Purtroppo, però, nel primo caso manca una s – logistics – e nel secondo manca una n – transport. Il sexy-shop, sarà anche sexy come negozio, ma così non si capisce quale merce venda. Meglio chiamarlo sex-shop. 3) Strafalcioni propriamente detti. E qui non sono necessarie ulteriori indicazioni. È possibile individuare tre sottocategorie: a) strafalcioni lessicali b) strafalcioni fonetici c) strafalcioni morfologici e sintattici. Partiamo con gli strafalcioni lessicali. Sullo scatolone di una marca di prodotti alimentari, mi è capitato di legger cracher invece di cracker. Precise, preciso, spesso si tramuta miracolosamente ed erroneamente in un verbo: precisare. Library, un false friend, ovvero un falso amico, viene inteso come “libreria”, ma significa “biblioteca”, che a sua volta viene tradotta con un’improbabile bibliotek. E poi i funghi, che in inglese si chiamano mushrooms, vengono ribattezzati con fungus, che sono pur sempre anche loro funghi, per carità, ma non certamente quelli che si trovano nei boschi o nei prati. Questi li possiamo trovare come affezione batterica sul nostro corpo. Purtroppo. Passiamo agli strafalcioni fonetici. Il primo che mi viene in mente è quello che riguarda il suono dell’h. In inglese, come si sa, questa consonante è pronunciabile, a differenza dell’italiano, ma vi sembra una buona ragione per trasformare tutte le vocali iniziali in suoni aspirati? Ed ecco che allora di colpo I = io diventa hi = salve, old = vecchio diventa hold = tenere, end = fi ne diventa hand = mano. Il suono fricativo dentale sordo th per gli italiani è diffi cile da pronunciare, perché non esiste nella loro lingua. Chi si sforza di pronunciarlo ma non riesce può, naturalmente involontariamente, indurmi a usare un ombrello per parare gli “splash” dovuti alla manovra della pronuncia con la lingua in mezzo ai denti velocemente poi fatta ritirare. Chi invece si arrende, lo pronuncia come f o t. In molte parole non è proprio un delitto, ma quando si dà luogo a equivoci… Pensate a three, il numero tre. Se dovessimo pronunciarlo con f o t al posto di th, avremmo free e tree, libero e albero. Equivoci con le vocali. Mentre in italiano le vocali possono essere aperte o chiuse, ma spesso non le distinguiamo neanche, in inglese c’è una netta diff erenza, anche di carattere distintivo e non solo fonetica dunque, tra suoni brevi e lunghi: sheet con i lunga signifi ca “foglio” o”lenzuolo”, ma shit con i breve signifi ca “merda”. Flash, lampo e come Flash Gordon si pronuncia [flash]. Pronunciato come [flesh] si intende la carne viva, ancora macellata. E infine il verbo to live, vivere, deve essere pronunciato rigorosamente [tu liv], perché [làiv] significa “dal vivo”, come la parola trasmessa in italiano. Quanti e quali sono gli errori morfologici e sintattici in inglese da parte di un italiano? Un errore molto frequente è il non ammettere che due culture, soprattutto quando così diverse l’una dall’altra, non possono proprio essere speculari. Bisogna allora imparare a “scollare” dalla propria mente la propria lingua madre quando ne stiamo parlando o scrivendo un’altra, qualunque essa sia. Eviteremo così frasi come I go to do a turn, cioè un improbabile “vado a fare un giro”, che invece si dice I go for a walk. Le voci verbali non devono essere mai tradotte letteralmente, perché il sistema verbale italiano e quello inglese non corrispondono. Il passaggio all’inglese deve avvenire solo considerando se un’azione sia presente, passata o futura. Gli ausiliari italiani non devono pertanto essere tradotti. Ciò che bisogna tradurre è la voce verbale nel suo complesso. “Io sono andato” non si traduce dunque I am gone ma I went o I have gone. E mai utilizzare to be, essere, come ausiliare se non per le forme progressive. Altro modo di tradurre ingannevole è quello che riguarda i phrasal verbs. Si tratta di verbi tradizionali che, se accompagnati da avverbi o preposizioni, modifi cano il loro senso originario, come per esempio to go out, to count in, to get up, to piece off , ecc. Difficile ricordarli tutti. Tuttavia, preferisco lo spazio vuoto sul foglio o la famosa “scena muta” che leggere o sentire traduzioni orribili di verbo + preposizione. Pensate al mensile inglese Speak up! Titolo con phrasal verb. Impossibile e inconcepibile tradurlo come “parlare sopra”, traduciamolo allora come “parla forte!”.
Dopo tale varia casistica, però, rassicuriamoci. Premiamo la nostra fantasia e pensiamo che gli emigrati italiani negli USA parlavano l’inglese brooklyniano, ossia un inglese pronunciato esattamente come si legge l’italiano, ma ce l’hanno fatta. E poi, come non ricordare l’inglese maccheronico di Totò nei suoi film? In La cambiale famosa la frase «La colazione degli inglesi si scrive britofist, ma si pronuncia bracfesso»; in Totò, Peppino e la dolce vita ricordiamo invece: «Friend in inglese vuol dire freddo». E ricordate ancora quella celebre pubblicità (oggi diremmo spot, ma un inglese capirebbe che stiamo parlando di un posto o che abbiamo macchiato qualcosa) che recitava: «Two is megl’ che uàn!». Se tutto ciò vi ha divertito e intrattenuto, vi consiglio allora queste letture: F. Frezza – A. Isidori, I like you a sack, Milano, Tea, 2010 B. Severgnini, Imperfetto manuale di lingue, Milano, BUR, 2010 J.P. Sloan, Instant English, Milano, Edizioni Gribaudo Srl, 2010
“A tutti gli italiani che pensavano di essere LORO il problema.” (J.P. Sloan, Instant English)
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