La lingua dell’isola del ghiaccio
Lingue & Culture
Scritto da Silvia Licata   

Pensando al fresco refrigerante dell’“isola di ghiaccio”, l’Islanda, compiamo un viaggio nell’universo islandese attraverso la sua lingua e le peculiarità della cultura che le appartiene.

L’islandese è una lingua germanica appartenente al ramo settentrionale, di cui fanno parte anche danese, norvegese, svedese e feringio. Il progenitore di tali lingue, dunque, è il medesimo che quello di altre parlate a noi più familiari, come ad esempio l’inglese e il tedesco: il germanico comune. Passata la fase unitaria di tale idioma, in cui non vi era alcuna distinzione tra una lingua di area germanica e l’altra, quelle del ramo settentrionale seguirono un percorso che le diff erenzierà rispetto a quelle del ramo occidentale (di cui fanno parte, appunto, tra le altre, inglese e tedesco) e del ramo orientale, che si estinguerà (infatti, il gotico appartiene solo ai nostri ricordi scolastici legati ai libri di storia attraverso cui abbiamo appreso le vicende di Ostrogoti e Visigoti). Nel caso dell’islandese abbiamo infatti a che fare con i Vichinghi (da vik = insenatura, per indicare che si trattava di una popolazione che si spostava andando di insenatura in insenatura via mare). I Vichinghi erano tribù germaniche scandinave o nordiche, cioè quelle situate all’estremo Nord dell’Europa, che corrispondono dunque alle attuali Danimarca, Norvegia e Svezia. I norvegesi in particolare approdarono in Islanda durante l’età vichinga, tra l’800 e il 1050, e esportarono sull’isola anche la loro lingua. Tant’è che islandese e norvegese avranno le stesse caratteristiche e una incredibile somiglianza, venendo a costituire il ramo nord-occidentale delle lingue nordiche, detto norreno. Danese e svedese da questo momento in poi faranno parte, sempre all’interno delle lingue scandinave, del ramo nord-orientale.
Nel 1150 inizia dunque il periodo classico della lingua islandese. Fu un momento caratterizzante sia linguisticamente che culturalmente, in quanto legato alle poesie scaldiche, le Skáldskapur. Si trattava di composizioni poetiche dal sapore prettamente nordico, scritte da poeti di corte, gli scaldi (Skáld). In realtà, la letteratura islandese del periodo conosceva anche un’altra fi orente produzione dello stesso ambito, i Carmi dell’Edda, ma la diff erenza sostanziale è che in tale ultimo caso, essi erano anonimi, mentre le poesie scaldiche sono di fatto attribuibili ad autori il cui nome è giunto fino a noi: Egill Skallagrímsson, Kormákr Ogmundarson, Hallfred Ottarson.
In quello stesso periodo fi orirono anche le saghe, ovvero racconti in prosa o cronache, anonime come l’Edda, narranti imprese di re norvegesi (come abbiamo visto colonizzatori dell’Islanda) o di importanti famiglie.
Ricordiamo infine Snorri Sturluson, autore norreno della Snorra Edda, l’Edda scritta in prosa, che niente a che vedere aveva con i Carmi poetici dell’Edda, anonimi.
Nel 1350 iniziò il periodo medio. Si trattava di un momento oscuro sia per la lingua che per la letteratura islandese, dovuto alla perdita di indipendenza politica e all’arrivo della cristianizzazione.
Nel 1530, cioè sul fi nire del periodo medio, entrava tuttavia in scena la stampa e ciò fu sicuramente di grande aiuto per ridare linfa vitale alla letteratura islandese. E dunque, con l’avvio della fase moderna, sotto l’impulso di un nuovo spirito religioso di natura cristiana, vennero composte saghe agiografi che e tradotti Bibbia e Nuovo Testamento.
Sotto il Romanticismo venne riscoperta l’antica tradizione nordica, e quindi diversi autori, quali ad esempio Jónas Hallgrímsson e Jón Th oroddsen, tornarono a dipingere il più genuino mondo islandese. Alla fi ne del XIX secolo, la letteratura islandese tuttavia tenderà ad accantonare la sua lingua in virtù del danese o del norvegese e ciò si vedrà soprattutto in alcuni scrittori, quali Jóhann Sigurjónsson e Gunnar Gunnarsson.
In età contemporanea, ma siamo fermi al secolo scorso, sarà Halldór Kiljan Laxness (1902- 1998) a ridare lustro e notorietà alla lingua e letteratura del suo Paese, narrando nei suoi romanzi delle tradizioni islandesi. Il Premio Nobel per la letteratura del 1955 è stato assegnato a lui.
Rispetto alle origini, l’islandese ha subito una pressoché inesistente evoluzione. Ossia si è mantenuto quasi invariato rispetto all’antica era vichinga. Soprattutto morfologicamente e ortografi camente non vi si riscontrano forti cambiamenti. Ciò è dovuto al vigore della letteratura così profondamente indigeno e, naturalmente, alla posizione marcatamente isolata dell’Islanda, lontana da altri territori e, di conseguenza, meno esposta alle contaminazioni culturali e linguistiche rispetto ad altri Paesi. Facile perciò immaginare che cambiamenti intervenuti in lingue geneticamente contigue all’islandese, come lo stesso norvegese da cui deriva, o comunque le altre parlate germaniche, non si sono verifi cati in tale lingua. E tuttora si presta moltissima attenzione all’ingresso di forestierismi. Laddove infatti il materiale linguistico indigeno consente di esprimersi correttamente e senza diffi coltà, si preferisce evitare di importare termini da altre lingue. È per esempio notevole che la modernissima parola “computer”, acquisita a furor di popolo un po’ ovunque nel mondo, in islandese non è stata accettata e, al suo posto, è stato preferito il termine tölva, derivato dal verbo islandese tala = calcolare. Anche l’alfabeto, con base latina, conserva alcuni caratteri dell’antico alfabeto germanico, ossia la scrittura runica. Le rúnar erano le rune, cioè simboli inizialmente unicamente legati alla magia e che solo gli addetti ai lavori potevano conoscere e leggere. Successivamente esse passarono come alfabeto e, con l’avvento della cristianità anche nel mondo germanico, la scrittura runica cedette il passo a quella latina. Rimasero pochi segni in alcune lingue, tra cui l’islandese. Si tratta in particolare di Ð / ð – Þ / þ. Esistono poi altri simboli speciali, consistenti nell’accentare le vocali (tutte con accento acuto, compresa y) e nella presenza di æ.
Altra caratteristica tipica dell’islandese, che ne contraddistingue anche la cultura così marcata, è il patronimico. Non è il cognome che infatti viene tramandato di generazione in generazione, semmai il nome di battesimo del padre, a cui verrà aggiunta desinenza son (cioè “figlio”, cfr. inglese son, tedesco Sohn, olandese zoon e svedese son) nel caso di discendente maschio e dóttir (cioè “figlia”, cfr. inglese daughter, tedesco Tochter, olandese dochter e svedese dotter) in quello di discendente femmina. Vi ricordate la cantante islandese Björk? Il suo cognome è Guðmundsdóttir, ovvero “la figlia di Guðmund”, perché tale è il nome di battesimo di suo padre. Ma del suo cognome paterno nulla sappiamo, in quanto non è quello che verrà tramandato. La s presente tra il nome del padre e la parola dóttir è una nostra cara e vecchia conoscenza: vi dice qualcosa il genitivo sassone? Ebbene sì, proprio lui, quello che da sempre ci fa ammattire per esprimere l’idea di possesso in inglese e che talvolta si incontra anche in tedesco.