Anno 1918: nascita di una nazione composita da ogni punto di vista, ricca di particolarismi e già problematica all’atto della sua costituzione. Anno 1992: dissoluzione della medesima nazione secondo le premesse della sua nascita. Quasi come dire: cronaca di una morte annunciata.
Ancora prima che si concludesse il primo conflitto mondiale, fu sancita con il trattato di Corfù nel 1917 la creazione di un nuovo Stato balcanico, che raccogliesse tutte le etnie presenti sul territorio senza prevaricazioni e con i medesimi diritti, sotto governo serbo. Fu così che il 1° dicembre 1918 nacque il Regno di Jugoslavia. Con i disordini causati dalla seconda guerra mondiale, il Paese fu proclamato Repubblica Federale. Esso, indipendentemente dal suo status, ebbe sempre un percorso accidentato, proprio in ragione delle diversità etniche, religiose, culturali, economiche e la morte del Presidente Tito nel 1980 non fece che aumentare il suo pericolo di disgregazione. E, infatti, a partire dal 1991 le singole repubbliche, a una a una, a partire dalla Croazia e dalla Slovenia, si proclamarono indipendenti e si staccarono dalla Jugoslavia, determinandone lo scioglimento. Premesse necessarie per parlare, positivamente, della ricchezza linguistica di un Paese che oggi non esiste più e che, nonostante tutto, raccoglieva in sé più omogeneità di quanto possiamo pensare. Probabilmente le cause del suo disgregamento vanno cercate ancora più lontano dalla data della sua nascita e non considerando solo o tanto i particolarismi etnici. Nella realtà, nessuna delle repubbliche era realmente interessata a continuare a rinunciare alla propria indipendenza come fino allora avvenuto (visto che a parte la Serbia erano appartenute all’Impero Austro-Ungarico), e non desiderava tornare sotto un nuovo giogo, quello serbo, ancorché “balcanico”. E questo tipo di sentimento non si è mai placato con il passare del tempo, sino ai giorni nostri. Tali antiche motivazioni si sono inevitabilmente legate a questioni di sviluppo, economiche e religiose. Tuttavia, ciò che intendo fare è uscire dal conflitto jugoslavo e dalle sue ragioni per spostare la nostra attenzione su ciò che ha unito, linguisticamente e etnicamente, la Jugoslavia, che trova comunque la propria ragione di essere esistita innanzitutto nel suo nome. Letteralmente infatti la parola “Jugoslavia” significa “terra degli slavi del sud”: in tutte le lingue slave esiste la parola “jug” che significa “sud” e che costituisce la radice del nome di questa nazione, a cui si aggiunge la terminazione “slavia” per ricordare che si tratta di un territorio abitato da popolazioni slave. Effettivamente, questo è ciò che sono sloveni, croati, serbi, bosniaci, montenegrini e macedoni: slavi meridionali (in contrapposizione a tutti gli altri slavi, che possono essere orientali, come i russi, i bielorussi e gli ucraini, o occidentali, come i polacchi, i cechi, gli slovacchi). Parlare di etnie in tal caso ha quindi poco senso e valore. Più approfonditamente, entriamo nel merito di tali apparenti differenze attraverso l’analisi delle lingue parlate in territorio ex-jugoslavo. Partendo nell’ordine da nord verso sud, la prima lingua che incontriamo è lo sloveno. Si tratta di una parlata slava meridionale del ramo occidentale, derivante da un’ulteriore ramificazione: al di sotto di tale suddivisione, infatti, esiste una sotto-categoria, quella dello slavo alpino, comprendente per l’appunto lo sloveno, il resiano (parlato in Friuli) e il prekmuro (sorta di sloveno parlato in Ungheria). Pur definendosi lingua slava meridionale, possiede tuttavia degli elementi che lo accomunano anche a quelle slave occidentali. Ad esempio, possiede un tipo di r in comune con lo slovacco che è considerata sia consonante che vocale. Rispetto alle altre lingue slave ha un aspetto più arcaico morfologicamente (conserva per esempio il duale e il supino, utilizzato per formare l’infinito nelle frasi finali). Possiede un lessico che lo avvicina in certe occasioni all’italiano e altre volte al tedesco (basti pensare alla vicinanza geografica con l’Italia e con l’Austria e ai legami storico-culturali con entrambi i Paesi), e come quest’ultima lingua, usa formare i numerali ordinali composti mettendo prima le unità, poi le decine (al contrario di come succeda nelle altre lingue slave): ad esempio ventuno in sloveno si dice ênaindvajset, dato da êden, uno e dvàjset, venti, come in tedesco si dice einundzwanzig, formato da ein, uno e zwanzig, venti. Per quanto riguarda l’alfabeto, lo sloveno utilizza il latino modificato (cioè il sistema di scrittura latino con l’aggiunta di segni diacritici, tale che si abbiano ad esempio lettere come č, š, ž). Infine, l’istituzione che regola e controlla tale lingua è l’Accademia Slovena delle Arti e delle Scienze. Procedendo nel nostro cammino verso sud, incontriamo il croato. Esso è una lingua slava meridionale del gruppo occidentale che presenta molta eterogeneità al suo interno. Essendo infatti parlato in varie zone dell’ex-Jugoslavia, vengono normalmente individuate tre sottofamiglie linguistiche, denominate diversamente in base a come si dice il pronome interrogativo “che’” nei vari dialetti: ča, što, kaj, e dunque avremo il čakavo, (Istria, Dalmazia, isole), lo štokavo (Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Croazia), e il kajkavo (Zagabria). Il croato standard è quello formatosi sullo štokavo, ma a sua volta esso conosce un’ulteriore distinzione in ekavo, affine al serbo, jekavo, affine al croato propriamente detto, e ikavo affine a croato, serbo e bosniaco. Esiste inoltre un dialetto croato a sé, il torlacco, parlato dai Serbi e, fuori dal territorio ex-jugoslavo, in Bulgaria. Come lo sloveno, il croato, sempre per ragioni storiche, è ricco di prestiti dall’italiano e dal tedesco, ma anche dal turco, a causa dell’invasione ottomana, e presenta, sempre come lo sloveno, una r consonantica e vocalica. Il sistema di scrittura utilizzato è il latino modificato; tuttavia in passato e fino all’800 circa si utilizzava il cirillico. Con la conversione della popolazione al cattolicesimo, in seguito alla conquista di Carlo Magno, l’alfabeto latino fece la sua apparizione, e perciò, in un primo momento i documenti venivano redatti sia in cirillico che con il sistema di scrittura latino. Dopodichè, quest’ultimo si impose definitivamente, fino a diventare il simbolo distintivo dell’identità croata, proprio perché legato alla fede religiosa. Soprattutto in Jugoslavia, le lingue slave che utilizzano il cirillico sono legate alla fede cristiano-ortodossa, mentre quelle che si servono dell’alfabeto latino sono legate al cattolicesimo. Per i croati, tale distinzione è fondamentale, soprattutto in considerazione della loro relazione con il mondo serbo. Dai tempi della costituzione della nazione jugoslava, si era soliti parlare di serbocroato, per indicare un insieme linguistico e culturale di base serba e croata. Tuttavia, i croati, che mal hanno sopportato da sempre l’idea di mantenere tale legame visti i loro sentimenti di rifiuto verso la Serbia, non hanno mai gradito tale definizione. Del resto, è anche pur vero che il serbo presenta molte affinità con il croato, ma non è neanche corretto considerarlo come volto cirillico speculare del croato. E più tempo è passato dal conflitto jugoslavo, più i croati hanno “purificato” la loro lingua da prestiti serbi, conferendole perciò un’impronta croata più netta e chiara, proprio in ragione del loro risentimento verso la Serbia. Infine, l’istituzione che regola il croato è il Consiglio per la Standardizzazione della Lingua Croata. Il serbo, lingua slava meridionale del ramo occidentale, parlata in Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, e Croazia, è formato sul dialetto štokavo (lo stesso quindi del croato standard), che in alcune zone corrisponde all’ikavo e in altre all’ekavo. Come già anticipato, con il croato formava una unica entità linguistica e culturale, tant’è che, pur utilizzando il cirillico, il serbo è l’unica lingua slava dei balcani che si serve anche dell’alfabeto latino. Avendo sempre avuto in quei territori un ruolo egemonico, l’entità serba non ha mai avuto difficoltà nel sentirsi unita culturalmente e linguisticamente a quella croata. Ciò che regola il serbo è non solo un’accademia, ovvero il Consiglio per la Standardizzazione della Lingua Serba, ma anche la norma istituita dal linguista serbo Вук Стефановић Караџић (Buk Stefanović Karadžić): «Пиши као што говориш и читај како је написано», ovvero: «Scrivi come parli e leggi come è scritto », che significa che in serbo ogni segno corrisponde sempre allo stesso suono, in qualsiasi contesto fonetico venga a trovarsi. Si tratta di una importantissima regola riformatrice, poiché grazie ad essa è stata conferita al serbo, rispetto alle altre lingue slave, più snellezza e semplicità dal punto di vista della fonetica, pur se tale norma è stata resa comune anche al croato e allo sloveno. Il bosniaco è una lingua slava meridionale del gruppo occidentale che ha riacquisito la sua autonomia in tempi recenti, dal dissolvimento dell’ex-Jugoslavia. Si è formato sulla varietà štokava, ma rispetto al croato e al serbo è più omogenea, anche se stranamente non è stata mai costituita alcuna accademia linguistica che lo regoli e non ha mai realmente sviluppato una propria vita culturale, perché sempre esistita all’ombra di serbo e croato, infatti è sempre stato incluso nell’unità serbocroata. Il bosniaco possiede una forte “anima” orientale, dovuta alle influenze di lingue quali arabo, persiano e turco. Ha infatti un lessico ricco di prestiti da tali lingue e, in passato, si utilizzava anche un sistema di scrittura orientale, l’arebico, simile a quello arabo. Oltre a tale tipo di scrittura, esso utilizzava anche il Bosaučico, il Begovica e il cirillico bosniaco. Attualmente si esprime sia con il cirillico che con l’alfabeto latino modificato. Il montenegrino è una lingua slava meridionale del gruppo occidentale formatosi sullo štokavo. Non è mai stata regolata da alcuna istituzione, perché da sempre considerata varietà del serbo, e persino gli stessi montenegrini non hanno coscienza della loro lingua. Molti di loro continuano ad affermare di parlare serbo. Solo in tempi recenti si sta cercando di dare una impronta autonoma al montenegrino. Anche qui vi è la presenza di una r vocalica e consonantica, come pure di una l con tali caratteristiche. L’alfabeto utilizzato è sia cirillico che latino modificato. Il macedone è l’unica lingua slava dei Balcani ad appartenere al ramo orientale, ciò in ragione della sua somiglianza con il bulgaro, con il quale ha in comune la presenza di articoli (che non esistono normalmente nelle lingue slave) e l’assenza di casi grammaticali, e quindi di una declinazione (particolarità presente invece in tutte le lingue slave). Proprio in ragione di tale somiglianza, si è sempre discusso sulla effettiva esistenza di una lingua macedone. I macedoni ovviamente rivendicano l’autonomia della propria lingua, ma la Bulgaria continua a considerarla una varietà linguistica del bulgaro. La Grecia, altro Paese limitrofo con cui sussistono discussioni in merito, pur non riconoscendo l’autonomia al macedone, non entra direttamente in capitolo, anche se, d’altro canto sostiene che l’unica lingua macedone mai realmente esistita sia l’antico macedone, ossia quella varietà di greco parlato in antichità e ormai estinto. Dunque anche per loro non è corretto chiamare il macedone in questo modo, ma definirlo varietà bulgara. La teoria corrente sia per i greci che per i bulgari è che il macedone sia una lingua creata artificialmente da Tito. Il macedone, insieme ad albanese, bulgaro, greco e rumeno, appartiene alla Lega Balcanica, gruppo linguistico-culturale eterogeneo le cui singole lingue si sono influenzate reciprocamente, nonostante la loro diversità. Attualmente non è stata ancora creata alcuna organizzazione che regoli il macedone. Anch’esso si suddivide al suo interno in varie parlate, in totale sette, distinte in occidentali e orientali. Il sistema di scrittura utilizzato è il cirillico. Nel Paese degli Slavi del Sud, esistono tuttavia anche lingue non slave parlate da minoranze linguistiche presenti in Kosovo: romaní, albanese e turco. Il romaní, è la lingua dei Rom e dei Sinti, termine che significa “uomo”, ed è una lingua indoeuropea parlata dai gruppi zingari. Appartiene al gruppo indo-ario e si è formato per effetto della dispersione di parte della popolazione indiana nel continente europeo. Non è mai stato regolato ufficialmente e l’alfabeto è il latino modificato. L’albanese è una lingua a sé all’interno della grande famiglia indoeuropea. Di origine illirica, distinto in tosco e ghego, in Kosovo costituisce la lingua kosovara in quanto tale. Per il linguista Matteo Giulio Bartoli si tratta di una lingua romanza del sottogruppo balcanico (come rumeno, moldavo e dalmatico). Nel Kosovo meridionale è presente inoltre una minoranza di kosovari gorani parlante il Našinsk, dialetto torlacco e quindi affine al bulgaro, anzi, l’idea comune è che sia una varietà bulgara (perciò lingua slava meridionale orientale e non più albanese). Infine, il turco, unica lingua non indoeuropea parlata in ex-Jugoslavia e in generale nei Balcani, appartiene alla grande famiglia delle lingue altaiche. Attualmente e dal 1928, grazie ad Atatürk, utilizza l’alfabeto latino, ma originariamente, in quanto lingua degli ottomani, popolazione orientale e islamica, si esprimeva con la scrittura araba. L’ente che lo regola è la Türk Dil Kurum. Tutte queste lingue, a eccezione del turco e talvolta del romaní, sono lingue SVO, cioè sintatticamente ordinate in soggetto, verbo e oggetto e sono flessive, cioè aggiungono un unico morfema o ne trasformano uno già presente per formare le varie categorie grammaticali. Il turco è una lingua SOV agglutinante, ovvero alla radice aggiunge diversi morfemi per esprimere le varie categorie grammaticali. Il romaní è flessivo e, benché SOV, in alcuni casi diventa OSV.
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