Scrittori e poeti 
in dialetto piemontese

di Samael Coral

Continuiamo con i nostri appuntamenti dedicati alle vie della memoria, parlando questa volta di scrittori e poeti in dialetto piemontese.

Credo sia doveroso ricordare l’importanza che ha avuto il dialetto nel delinearsi di una fisionomia sociale e politica della nostra regione in un periodo come questo dove la sua rivalutazione patisce una certa negligenza; basti il ricordare che lo stesso piemontese è stato ancora fino a tutto il ’700 il linguaggio prediletto a Corte, insieme ovviamente al francese.

 

Una testimonianza abbastanza singolare in merito ci viene dal letterato transalpino DeBrosses, che nelle sue Lettere familiari del 1740, così scrive: “A Torino il francese e l’italiano erano ugualmente parlati, ma né l’uno né l’altro sono la lingua propria e popolare del posto; questa è il piemontese, specie di dialetto italiano completamente imbastardito del quale non capisco una parola!”.

E, onestamente, adesso che è diventato così difficile trovare anche solo rispetto a cinquanta anni fa persone che conoscano il dialetto qui a Torino e nelle zone limitrofe, anche per via dell’imponente flusso migratorio dagli anni ’50 in poi, mi preme particolarmente far conoscere con questo articolo qualche letterato dei tempi andati che si espresse in dialetto restituendogli la sua piena dignità.

Cominciamo con il medico e favolista Edoardo Ignazio Calvo, vissuto tra il 1773 e il 1804, dunque nel pieno della rivoluzione francese e delle campagne napoleoniche, morto molto giovane vittima incolpevole della sua devozione verso i  malati di tifo.

Le sue Favole morali in terza rima si scagliano apertamente contro i Francesi; infatti, in una di esse si legge che i cani sono malati; non è la rabbia ma ’n mal neuv ch’as dis Gallofobia (una nuova malattia che si chiama Gallofobia).

Un’altra favoletta chiama in causa i pito (tacchini), i quali, stanchi del sempre vive ’n caponera (la stia), e decis d recuperà l’indipendenza, chiedono il decreto per una nuova repubblica.

Ma quando arriva il decreto, redatto addirittura da Platone in persona, non sanno come attuarlo!

Un altro esponente letterario del dialetto settecentesco è il frate Ignazio Isler, nato nel 1703 a Torino da famiglia svizzera, singolare e simpatica figura di organista chiesastico, che più che canti sacri, si dilettava a scrivere satire contro certi personaggi dell’epoca come: preti, frati, perpetue, beghine, zitelle, e ubriaconi.

Famosa è la sua ballata chiamata Giaco Tross, il quale quando sarà la sua ora, chiede malvasia al posto dell’olio santo e vuoi ch’am fasso la tampa ’nt na crota (vuole cioè essere sepolto in una cantina dentro una bara).

La via che ricorda l’Isler è una traversa di via Barbera a Mirafiori sud.

Il giornalista e patriota aviglianese Norberto Rosa, nato nel 1803, ricordato da una traversa di via Bologna al Regio Parco, fu anche autore di molti versi contraddistinti da una certa, mordace vena satirica.

Il monregalese Alberto Viriglio, nato nel 1851, fu invece molto legato a Torino e alle sue tradizioni.

Fu infatti fecondo collaboratore, con i suoi versi e articoli di cose piemontesi di giornali come “Gazzetta del Popolo”, il “Pasquino”, e il “Fischietto”, questi ultimi due di taglio più umoristico, e autore di operette teatrali, tra cui alcune ispirate dalla figura di Gianduja.

Il Viriglio è ricordato da una lapide sul palazzo municipale, e da una via in barriera di Milano.

La sua opera è tuttora vista dagli studiosi di letteratura piemontese come un trait d’union necessario con il lavoro  della generazione successiva di autori, tra cui si distingue Nino Costa.

E veniamo appunto a parlare proprio di Nino Costa, forse il più noto del lotto, nato a Torino nel 1866 e qui morto nel 1945, poco dopo la fine della guerra, dove suo figlio ventenne lascerà la vita.

La sua opera in versi risente inequivocabilmente di un certo influsso pascoliano a cui si unisce l’originalità del dialetto che lo rende uno degli autori ingiustamente misconosciuti del primo Novecento.

Le sue tematiche sono varie e tutte importanti; si passa dall’amore per il Piemonte “Cantuma la vita, la bela vita nostrana, un po’ storta, un po’ drita, ma teggia (robusta), ma sana, come l’anima piemonteisa, ch’á lé nen morta…, a il ricordo di Superga, nella lirica omonima: “lassù, lassù, sla pont dla colin-a, bela parei dúna memoria cara, a seurt, polida, dánt la nebia fin-a la basilica bianca del Juvarra..”, alla passione per la natura e gli animali come descritto in IEUI DLE BESTIE:” E léuj del can? Bei euj chá stermo (celano) tanta inteligensa, bei euj chá luso(risplendono)d’ tanta cognission!”.. alla devozione verso Dio, con le poesie “Consolè”, “Don Bosch”, “Cotolengo”.Il Costa si cimenterà anche, sempre con risultati egregi, con tematiche nettamente più intimistiche e filosofiche come nel caso di una lirica incentrata sull’immortalità dell’anima dinanzi allo sfascio materiale del corpo “l’anima a guarda con tristessa la po’vra carn passia (avvizzita) e tormentà, come na mama a guarda soe masnà (bambino), stermand (celando) ij so pensè con na caressa”.

Una piccola (purtroppo, viene da dire)  traversa della centrale via Pomba immortala il ricordo di questo grande autore del nostro dialetto, oltre a una piccola lapide all’entrata del parco del Valentino.