Don’t tell my mother I’m in Iran

  di Nicoletta Coppo

 

Prima di tornare in Iran sono rimasta a lungo in contatto con Shahruz e altri amici iraniani. 
Con il loro aiuto ho tentato di capire qualcosa in quell’intricata matassa di storia, realtà, proibizioni e trasgressioni. 

In questi giorni attendo notizie dalla Repubblica Islamica. Tutto tace.  

 

Forse ho fatto troppe domande a Shahruz. Da tempo non compaiono più post e riferimenti su facebook sulla situazione politica del paese. Niente più immagini di uomini condannati a morte o appelli a salvare qualche vita. Nell’ultimo contatto, qualche settimana fa, ho chiesto esplicitamente come possono convivere vita quotidiana e lapidazione. Amnesty International riporta notizie di torture e di violenza, i miei contatti iraniani continuano a scrivermi che in Iran si conduce una vita normale, senza specificare cosa si intenda per normale. A volte, gli stessi contatti, come se fossero esasperati, mi descrivono delle situazioni terribili, per poi ritrattare. Sono confusa. Forse c’ è una verità, che sta’ in mezzo. Forse pretendo di capire una situazione che neanche i più informati corrispondenti internazionali hanno ben chiara. Shahruz è agnostico, ha studiato, conosce perfettamente l’inglese, ora studia il tedesco. Ha viaggiato. Proviene da una famiglia borghese con una solida posizione economica. A suo modo mi vuole aiutare. Mi ha mandato una serie di foto dove un gruppo di ragazzi praticano snowboard. Chiedo dove sono state scattate. Ottima domanda! Lui mi risponde in Iran. Io mi stupisco. Buona la mia reazione. Lui si rifà mandando il link del filmato di Bunuel per National Geographic. Don’t tell my mother I’m in Iran.

Mi collego a youtube. Oltre al filmato consigliato da Shahruz ce ne sono molti sui fatti del ’79. Immagini di repertorio: ragazzi in piazza, spari, auto in fiamme.

Mi concentro su Don’t tell my mother. Il filmato si apre con il regista Diego Bunuel, nipote del più celebre cineasta spagnolo, che siede su una seggiovia sopra una distesa candida  di neve. Al suo fianco una giovane ragazza in tenuta  da snowboard. Non siamo in Svizzera o in Colorado. Siamo in Iran sui monti Alborz, forse a Dizin o a Shehshak. Sono i luoghi preferiti dai giovani della borghesia iraniana. Una ragazza abbronzata fuma una sigaretta, un ragazzo con gli occhiali a specchio prende il sole. Non c’è traccia di velo o di censura. Il giornalista domanda alla ragazza perché non porta il velo. Lei risponde ridendo: “... Questa è una zona libera... Non è necessario indossare il velo”. Non c’è nulla che mi ricordi l’Iran di Amnesty International. Solo giovani che scendono leggeri sulle piste innevate. Che si fermano accanto agli chalet per riposarsi e stare insieme. 

Il filmato prosegue con un’intevista ad un mullah di Qom, uno dei luoghi sacri per i musulmani sciiti, non solo iraniani, dove si trova la tomba di Fāima al-Maʿsūma, figlia dell’Imam sciita Mūsā al-Kāim. La città dove c’è il maggior numero di scuole coraniche, che ha ospitato per un certo periodo l’Ayatollah Khomeini. Le riprese continuano in una sorta di cantina simil newyorkese dove un ragazzo rappa il Corano. Poi la scena si sposta in un salone di bellezza di Teheran, dove una donna con mani esperte mostra come si acconcia l’hijab, suggerendo i trucchi per rendere più intrigante la bellezza femminile velata. Nell’intervista la donna spiega che in Iran si possono mostrare i capelli, polemizzando apertamente contro la moda saudita.

Proseguo la visione. Viene inquadrato un taxi giallo con alla guida una donna. Sulla capote lampeggia la scritta taxi for womens. Lei, coperta dall’hijab si mostra sicura ed efficiente. Alla domanda se il marito approva quel mestiere poco femminile, la donna risponde senza indugio che il marito la sostiene e che non ha problemi se di sera torna a casa a mezzanotte da sola. E poi aggiunge che in Iran, non è come in Arabia, dove le donne non possono guidare! Altra aperta polemica con i vicini sauditi. 

Metto in pausa. Quindi le donne possono lavorare fino a tarda notte e non devono essere accompagnate dal maharam? Sembra che gli appelli dell’Iran Human Rights siano delle favole per noi occidentali. Riprendo la visione. Siamo la Museo di Arte Contemporanea. I sotterranei sono ricchi di opere d’arte occidentali: Picasso, Pollock, Warhol, Lichtenstein, Magritte. Bunuel può osservare le opere ma non può parlare con i custodi. Sappiamo solo che sono state salvate dalla furia della rivoluzione del ’79.

Come vive un israeliano a Teheran? Ricordo che i viaggiatori che si recano in Iran ottengono il visto d’ingresso solo se sul loro passaporto non compare il visto per Israele. Un ebreo a Teheran dovrebbe vivere nascosto. No, un vecchio rigattiere ebreo beve vodka distillata in casa e va in sinagoga senza problemi.

La scena si sposta in Parlamento dove il commentatore parla di democrazia e diritti per tutti. Il servizio si chiude sul Mar Caspio alla ricerca del prezioso caviale Beluga.

O si tratta di propaganda o io non ho capito nulla. Shahruz proviene da una famiglia borghese. Ed è la borghesia la chiave di volta per capire la società iraniana.

Farian Sabahi descrive le autorità iraniane come affette da populismo, impaurite dalla borghesia. E proprio contro la borghesia e le sue donne, caparbie e disobbedienti, che hanno scagliato l’ultima sfida: il divieto per le donne di recarsi sui campi da sci se non accompagnate da un parente. I giovani iraniani amano sciare sulle piste innevate non lontano da Teheran. Come ha affermato la ragazza intervistata da Bunuel i campi da sci rappresentano una zona franca, dove non si indossa l’hijab, si beve, si sta con i coetanei e si gode della libertà che altrimenti sarebbe negata. Il governo islamico cerca di piegare quella borghesia che in ogni momento sfida i codici di comportamento e di abbigliamento. Che è pronta a scendere in piazza e dare vita ad una nuova onda verde. Che si professa agnostica. Che fra le mura domestiche vive secondo uno schema occidentale, consumando alcolici di contrabbando con il rischio di finire nel carcere di Evin, quel carcere che ha visto torturare e ammazzare gli oppositori dello Scià nel 1979 e che ora tortura e uccide gli oppositori della repubblica islamica.

Farian Sabahi scrive: “Secondo una circolare della polizia, diffusa giovedì scorso dal sito pro-governativo Etedaal, le ragazze e le signore non potranno infatti più sciare se non accompagnate da un mahram, ovvero da parente di sesso maschile.(…). Le piste innevate sono infatti una bella occasione per conoscere persone dell’altro sesso. I giovani si incontrano e poi si danno appuntamento in montagna, dove la polizia religiosa non riesce a controllare chilometri e chilometri di piste. Anche perché la polizia viene dai ceti bassi, e sugli sci non ha tanta esperienza quanto i giovani borghesi. Inoltre, in questi ultimi anni alcune donne hanno osato persino sciare senza il foulard, anche di fronte ai giornalisti stranieri che hanno raccontato questa moda. Ma nella Repubblica islamica il velo è stato reso obbligatorio una trentina di anni fa dall’Ayatollah Khomeini all’indomani della rivoluzione del 1979. E violare l’obbligo del velo può costare un certo numero di frustate. Un rischio che, in montagna, alcune donne sono disposte a correre.

L’unica soluzione sembra essere, per la polizia religiosa, impedire l’accesso agli impianti di risalita alle giovani donne non accompagnate”.