Un giorno, un famoso cacciatore dichiarò di essere in grado di mettere in gabbia tutti i leoni africani, nessuno escluso. Di fronte alle televisioni di tutto il mondo, ne diede una dimostrazione pratica: costruì attorno a sé una palizzata circolare di un metro di diametro.
Far parte di una minoranza è un’esperienza esaltante, quasi mistica. Si possiede un proprio linguaggio, esplicito o meno poco importa, basta che sia esclusivo, e abitudini peculiari, particolari, tanto da apparire bizzarre - a volte - a chi non le condivide; gli altri; gli stranieri.
Far parte di una minoranza crea un confine, una linea precisa che delimita il luogo dove ci si riconosce e, per conseguenza logica, esclude tutto il resto, lo spazio - non necessariamente fisico - abitato dall’universo esterno dei diversi. Poco altro riesce ad eguagliare il piacere sottile di sentirsi membri di un gruppo, condividendone l’identità, tanto da considerare quest’ultima patrimonio integrante della propria umanità, da rendere esplicita quando si sia chiamati a descriverla. Nominare sé stessi, equivale ad individuare un insieme identitario cui aderire, anche quando non sia dichiarato apertamente e il concetto di appartenenza diviene così oggetto di interesse incessante, talvolta inconscio, ad esempio viaggiando per il mondo in cerca di quella altrui da confrontare con la propria. Eppure, una sensazione così appagante e completa, la condivisione profonda, empatica, di una cultura spesso millenaria, radicata in usi e costumi descritti da storie tanto antiche da affondare nel mito, si ritorce contro chi la prova quando il confronto con il diverso divenga conflitto, dunque definisca la possibilità concreta di un vinto e un vincitore, chi assimila chi viene assimilato. Questo è prima di tutto il migrante: colui che per mille motivi, se mille bastano, subisce l’esperienza di uno scontro violento tra la propria appartenenza e quella altrui. Affinché ciò accada, non è necessario spostarsi, viaggiare: il migrante può esserlo senza muovere un passo, nel luogo in cui è nato e dove hanno vissuto le donne e uomini dell’albero complesso di parentele che lo ha generato, quella che solitamente si definisce patria. Essere sardi, significa appunto interrogarsi sulla propria duplice condizione di migranti. Nella propria isola, vittime del conflitto aspro tra le necessità culturali di uno stato unitario e le forti peculiarità locali, non ultima l’esistenza di una lingua propria, riconosciuta dalla comunità nazionale ma soffocata da quella ufficiale dello stato italiano; nell’altrove di tutte le parti del mondo, raggiunte per necessità contingenti di un secolare sottosviluppo economico, oggetto di intolleranza e sospetto da parte di altre appartenenze. Il sardo si trova quindi nell’invidiabile - e bizzarra - condizione di sperimentare il proprio essere ‘migrante a prescindere’, rimanendo dov’è nato o partendo per un qualunque altro luogo. Essere ‘migranti comunque sia’, prevede un costo esistenziale assai elevato, come accade di norma per le costrizioni e tuttavia regala la possibilità di interrogarsi sul senso generale dell’esserlo dalla posizione unica di chi non ha scelta, se non quella di decidere tra l’ignorare ciò che si è, sopprimendo la propria appartenenza, o elaborane il senso, con particolare attenzione alla necessità stringente di risolvere i conflitti nei quali il migrante è coinvolto, senza per questo ripartire l’umanità in vincitori e vinti, titolari di identità e assimilati. Sembrerebbe, dunque, che la condizione del sardo sia particolarmente adatta alla riflessione su una convivenza pacifica tra appartenenze, alla trasformazione in confronto del conflitto identitario e culturale, alla mediazione, necessariamente sperimentata nei secoli di migrazioni esterne al proprio territorio nazionale e interne allo stesso, da migranti culturali. Stupisce, al contrario, la direzione in cui si muove il movimento montante delle rivendicazioni identitarie isolane - alimentato dalla condizione di forte crisi economica, non certo una novità - orientato tutto, senza quasi eccezioni, alla costruzione di un muro invalicabile che divida uno scontato ‘noi’ da un altrettanto banale ‘loro’. Ciò si manifesta in due aspetti complementari: da una parte l’intolleranza spesso brutale nei confronti degli stranieri approdati nell’isola, con episodi di violenza gratuita che la cronaca riporta ormai solo nei casi più eclatanti, tanto è divenuta comune e parte del quotidiano; ma, dall’altra e sorprendentemente, lo sviluppo di atteggiamenti razzisti nei sardi emigrati nelle aree industrializzate, come se la doppia condizione di ‘migrante in casa propria’ da cui si fugge per divenire ‘migrante in casa altrui’, altro non suggerisse se non il “fare agli altri ciò che hanno fatto a te”, forse nell’illusione di poter cauterizzare le proprie ferite col sangue di quelle altrui. Consola la poca consistenza di un piccolo popolo - più vasto nel mondo esterno alla patria in cui ci si ritrova comunque estranei, ma in ogni caso di pochi milioni, da contare sulle dita di una mano - tuttavia potrebbe rappresentare un esempio per tutti, suggerire utili riflessioni qualora si considerasse la sua peculiarità: se neppure la condizione di duplice migrante, di estraneo obbligato, di cacciatore di leoni chiuso nella gabbia altrui, spinge a superare le reciproche intolleranze, cosa mai potrà suggerire la necessità di una mediazione non violenta?
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